Uncategorized – Sara Tamponi
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Rapisce come il canto

Parla e fingo di ascoltarla.

Annuisco quando chiede un feedback.

“Certo, chiaro. Ho capito”

Tengo l’altra mano nascosta sotto il tavolo, guardo in basso e aggiorno la pagina sullo smartphone. Compulsivamente. Senza tregua. Ogni trenta secondi.

Ti prego. Ti prego. Ti prego.

Non mi rivolgo a qualcuno di preciso. Non sono credente, non lo sono mai stata. Aspetto un segnale, quello che inseguo da anni. Mi sembra di sentirlo gridare. “Sei libera! Libera!”

Il mio cuore scalpita al solo pensiero, sento l’adrenalina che scorre in attesa del momento in cui potrò dirlo: addio e a mai più.

SE potrò dirlo. SE potrò farlo.

Così costringo tutta me stessa a tenere i piedi per terra. Potrebbe essere un altro no. È normale. Succede nella vita, sempre. Non è sbagliato, è il corso delle cose. Ma io quel corso vorrei prenderlo, ribaltarlo, sbatterlo come un vecchio tappeto e poi buttarlo nel secco. Tenetevi quel fottuto tappeto. Non lo voglio.

Ho cercato di ignorare quella parte di me. Quella che mi accende, che mi fa sentire viva. Ho provato a schiacciarla, ma appena trova uno spiraglio pouf, ecco che ritorna. Prepotente, testarda. Si impossessa di me, e io non riesco a non cederle. Si insinua sotto la pelle, mi fa sognare. Mi ricorda quando da ragazzina, dodicenne e in pubertà, ascoltavo musica romantica mentre guardavo fuori dal finestrino, immaginando un mondo in cui ballavo anche se non l’avrei mai fatto, perché rigida come un tronco e timida all’inverosimile. Ballare mi faceva sentire stupida. Lo provo tutt’ora.

Quello dei trent’anni invece, sembra più un canto, una di quelle voci tanto belle da sollevarti la pelle.

Non riesco a resistergli.

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Script test

  1. L’utente visualizza la propria dashboard;
  2. Tra le icone a disposizione sulla dashboard, l’utente può scegliere tra “vita” o “lavoro”, caratterizzate rispettivamente dai colori blu e grigio;
  3. L’utente clicca su “vita”, ma il pulsante non si accende;
  4. L’utente clicca sul pulsante “lavoro”;
  5. L’utente accede all’area “lavoro”, dalla quale può visualizzare i relativi dettagli;
  6. L’area “lavoro”, in basso a destra, mostra una dicitura cliccabile denominata “visualizza opzioni avanzate”
  7. L’utente accede alle opzioni avanzate;
  8. Una volta effettuato l’accesso all’area sopracitata, l’utente si schianta su una pagina con sfondo bianco, apparentemente errata, caratterizzata dalla seguente dicitura:

“Error 404: ti ho preso in giro. Il pulsante “vita” non esiste. Lavora, str***o”

L’utente torna alla pagina precedente. L’utente clicca sul badge posizionato in alto a destra sulla pagina, caratterizzato dalle sue iniziali. L’utente clicca sul badge. L’utente effettua il logout.

L’elenco puntato iniziava a darmi sui nervi. Scelta stilistica, direbbe l’artista. Io preferisco chiamarla pigrizia.

Ah, dimenticavo.

Risultato atteso: l’utente accede alle icone “vita” e “lavoro” presenti sulla propria dashboard.

Bug: (o forse no?): il pulsante “vita” non si accende.

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Puzzle

Un pezzo del puzzle va via.

Sapevo fin dall’inizio che non ne facesse parte, eppure in qualche modo si incastrava. Aveva smussato i suoi angoli, aveva adattato la sua forma con tanto sforzo. Sapeva che avrebbe rischiato di piegarsi, ma era pronto a farlo, perché conscio che non sarebbe rimasto lì per sempre.

Ogni giorno il pezzo aveva una nuova crepa, ma resisteva. Nel frattempo, cercava disperatamente l’altro puzzle, quello vero. Il suo.

Sono stata a fianco a quel pezzo fin dal primo giorno. Ci lamentavamo, le nostre parole consumavano il cartone lentamente, perché trovavamo inaccettabile stare in quel posto così scomodo. Così sbagliato. Tra noi, però, c’è sempre stato un terzo pezzo: quello saggio, forte, ottimista. Ci diceva di resistere, che capiva. Lei capiva.

Ora, il primo pezzo ha trovato il suo posto, tra decine di puzzle sparsi qua e là. Lo guardo e sorrido. Tra poco dovrò salutarlo.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Due volte in due mesi.

Il mio cartone è bagnato, ma so che si asciugherà, come sempre, pronto a riadattarsi ma non a piegarsi.

Piegarsi no, mai.

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Puntura indolore (o quasi)

Mi sfioro il collo e lo sento. È ancora lì. Un piccolo puntino in rilievo sulla pelle.

Due settimane fa mi ha punto una vespa e non ho sentito nulla. O almeno, quasi. Il mio cervello era spento a uno punto tale da cancellare il dolore. C’era solo l’acqua di una piscina, un trampolino, belle persone. E poi verde, tanto verde, insieme a un profumo di pino che mi pizzicava le narici.

È stato bello, quel giorno. I problemi non esistevano. Non sentivo la mia testa rimbalzare impazzita come una pallina da ping pong. Non sentivo il mio stomaco lamentarsi. Sembrava una magia, qualcosa di surreale.

Dalle undici del mattino alle undici di notte non c’è stato dolore, frustrazione, paura. Confusione.

Alle 23.30, poi, è tornato.

Ahi, ho pensato, sfiorandomi il collo.

Era finito, ma io avrei voluto che quel sogno durasse per sempre.

Sette e ventitré, mi ha ricordato una vocina simpatica nella mia mente che avrei tanto voluto prendere a pugni.

Ho chiuso gli occhi.

Un giorno finirà.

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Sebastiano

“Friggitrice ad aria” cita una copertina verde fluo.

Mah.

La libreria è disordinata, con volumi su volumi impilati sul pavimento. C’è persino un cagnetto che sonnecchia di fronte a uno scaffale sul suo piccolo cuscino. Mi viene difficile passare, ho paura di pestargli una zampa, così mi avvicino ai titoli per leggerli meglio, in punta di piedi. E di fianco al libro sulla friggitrice sta uno sui fiori. Poi uno sulla meditazione. Un altro sul mangiare sano. Li studio uno a uno, con attenzione, alla ricerca di una logica che non c’è. Sono venuta qui per cancellare le ombre, per fare chiarezza nella mia mente, ma la libreria è più confusa di me. Il cagnetto inizia ad abbaiare.

<<Sebastiano!>> lo rimprovera la commessa, poi lo prende in braccio ed esce fuori, lasciando il negozio incustodito. Continuo a girare tra gli scaffali, guardando i titoli dei volumi e delle sezioni: psicologia, fantasy, letteratura classica. Apro alcuni libri, li sfoglio, leggo qualche riga. Niente da fare. Mi arrendo.

Lascio la libreria, entro in profumeria e prendo un rossetto color mattone, poi mi passo la mano tra i capelli. Sembrano paglia. Scelgo un balsamo a caso e vado alla cassa.

Esco dal negozio e mi siedo su una panchina. Recupero il rossetto e lo smartphone dalla borsa, apro la fotocamera e passo la tinta rossa sulle labbra, poi mi guardo.

Meglio.

Rimango qualche minuto seduta di fronte alla libreria, noto la commessa chiudere la porta a chiave.

Certo che Sebastiano, per un cane, è proprio un nome stupido.

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Specchio

<<Ciò che vorrei non posso averlo, ciò che ho non lo voglio, non mi interessa. Capisci?>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Il suo viso è tirato, lo sguardo confuso, le labbra atteggiate in una perenne smorfia triste.

<<A quest’ora, in questo periodo dell’anno, la mia pelle è di un altro colore, invece guardami. Guardami! Quel maledetto verdastro che è parte di me, quest’anno dovrò tenerlo. E sai perché?>>

Non risponde, di nuovo.

<<Te lo dico io, perché. Perché il mare non lo vedo più. Perché la mia vita non è più vita, è solo un susseguirsi di sveglia sette e ventitré sette e ventitré sette e ventitré per cinque giorni alla settimana finché poi arriva il sabato e posso pensare. Posso guardarmi, e quello che vedo è ciò che non avrei mai voluto. Ah, i trent’anni!>>

Batto il palmo aperto sul marmo del lavandino e subito dopo me lo porto alla bocca, come se quel gesto potesse alleviare il dolore. I miei occhi si fanno lucidi ma poi faccio un respiro profondo.

<<Non posso piangere, no. Non posso perché fa male. Se piango una volta sto male una settimana, sai? Forse anche due. Ah, ma lo sai già. Chi meglio di te!>>

Rido, e ride anche l’altra, ma dura poco.

<<Non so più niente. Non ho più me. Mi rimane questo, questi pensieri disordinati e senza senso, ma fanno schifo, sai? Non piacciono a nessuno>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Distolgo lo sguardo dallo specchio ed esco dal bagno.

Pain sarà il mio prossimo tatuaggio.

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Non

Non lascerò più

che il mondo dei sogni mi sussurri bugie all’orecchio.

Non lascerò più

che le persone possano approfittarsi della gentilezza.

Non lascerò più

Che le emozioni possano offuscare il mio giudizio.

Non ascolterò più

le lacrime che minacciano di uscire al sentir una canzone.

Non ascolterò più

Il cuore che batte forte quando qualcosa va storto.

Non ascolterò più

i suggerimenti di chi in realtà non vuole far del bene.

Non guarderò più

l’estate che va via in silenzio senza prima salutarmi.

Non guarderò più

il futuro con occhi accecati dal sogno.

Non guarderò più

in una sola direzione.

Questa è una lettera per me stessa,

e la invito a leggerla, ogni volta che sentirà il coraggio mancarle.

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In fondo alla vaccheria, tra le strade senza cemento

C’era il profumo dei fiori, i colori della frutta, le radici scoperte dalla terra.

C’era una casa vicino al mare in cui vivevano due vecchietti che non si fermavano mai.

Quando la ragazza andava a trovarli, la nonna era sempre ai fornelli mentre il nonno zappava la terra. Non volevano e non potevano fermarsi.

<<Non portatemi mai via di qui>> diceva lui <<ne morirei>>.

Le parlavano di un mondo in cui i palazzi non esistevano e le persone la sera chiacchieravano, seduti fuori dalle porte delle loro case.

C’era un posto vicino alla casa del nonno che chiamavano vaccheria. Lì andava sempre a prendere il latte in un contenitore di metallo, e quando lo cuoceva faceva una schiuma alta. Era latte grasso e pieno di panna.

Il nonno amava tanto la nonna. Diceva di essere la sua ancora, e lei aveva sempre un fare un po’ scorbutico. Quando lui però la guardava il suo viso si addolciva. Leggeva nei suoi occhi amore, venerazione e anche un po’ di ironia.

I nonni scherzavano e si punzecchiavano sempre, e quando i nipoti andavano a trovarli li vedevano sparire in mezzo all’orto all’improvviso, alla ricerca delle zucchine più grosse e delle pesche più mature.

Gioivano delle piccole cose. Bastava il sorriso della figlia ad accendergli l’animo e la memoria, sepolta da anni vissuti intensamente, di amore e senza tregua.

Quando poi la ragazza tornava a casa sentiva sempre un po’ di malinconia, perché il suo non era un mondo in cui ci si poteva accontentare di poco. Era fatto di speranze affievolite, di competizione e fame di successo. Così si aggrappava al ricordo della vaccheria, delle strade senza cemento e del vociare la sera, fuori dalle case. Pensava all’amore dei nonni, al loro gioire per le chiacchiere e alla compagnia che gli riaccendeva l’animo, e le tornava il sorriso.

Il loro era un mondo felice.

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Dove sei finita?

Qui il mio ragazzo cercava di curare il mio mal di testa con il mare e con le pietre <3

Quando iniziai la gestione dei clienti in agenzia ero talmente entusiasta per essere arrivata “lì dentro” da dimenticare tutto il resto.

Neanche un mese dopo smisi di scrivere, accantonando le emozioni che tanto avevo rincorso.

Il ghostwriting può aspettare, mi dicevo.

La mia agenda iniziò a riempirsi di impegni che annullarono del tutto lo spazio per me stessa, ma non ne fui subito turbata; pensavo fosse giusto così, e che un giorno avrei ripreso da dove avevo interrotto.

Quel giorno però diventarono due settimane, poi un mese, poi sei. Dimenticai la scrittura, e quando mi veniva in mente scacciavo il pensiero, fingendo non fosse nulla di importante.

“Beh, S, a un certo punto anche per me è stato lo stesso. Ho smesso di scrivere perché non mi bastava. Volevo qualcosa di più. E credo che in fondo sia questa la tua strada”.

Credetti di non dare peso a quelle parole, eppure mi entrarono dentro più di quanto pensassi. Più mi allontanavo dalla scrittura, più pensavo che in fondo avesse senso.

Successe per mesi finché scoppiai.

La mia frustrazione e i miei sogni accantonati sfondarono la porta e mi fecero a pezzi. Ma, in fin dei conti, ero io l’unica responsabile; loro si erano solo limitati a ricordarmelo.

Così una sera scrissi queste parole.

Quando le rileggo, mi sembra di rivivere di nuovo quel periodo.

Non so dire quando successe.

L’unica cosa che sentivo era un forte malessere che cresceva dentro di me giorno dopo giorno, sempre più intenso e fastidioso.

Avevo dedicato talmente tanto tempo a ciò che andava fatto che a un certo punto smarrii la mia strada. L’unico vero obbiettivo era fare fare fare completare tutti i task per arrivare a fine giornata senza un pensiero per il giorno dopo.

E poi quel senso di frustrazione, di incompletezza per non essere riuscita a fare tutto. Cercavo di vivere al massimo la vita professionale, ma la mia di vita? I miei bisogni, i desideri, ciò che avrebbe dovuto avere la priorità sul resto? Stavo vivendo professionalmente la mia vita personale?

Probabilmente no.

Gli attimi di felicità non mancavano ma erano troppo brevi, un momento di euforia al quale seguiva subito una preoccupazione. E l’entusiasmo si spegneva veloce così come era arrivato, senza lasciare alcuna traccia se non una flebile sensazione, persa chissà dove, in fondo in fondo in un angolino.

Allora via una sigaretta dopo l’altra, la gola brucia ma è l’unica cosa che vuoi sentire e ti viene il mal di testa solo a pensare al prossimo compito che dovrai portare a termine. E i tuoi sogni? Dove sono? Dov’è la tua voglia di emozionarti, di crescere, di migliorarti?

E il sole? Riesci a sentire il suo calore sulla pelle? L’estate è là fuori. Aspetti sempre questo momento per bruciare al sole, ma poi fa troppo caldo e l’acqua di mare è un sollievo. I neuroni si riattivano, la pressione risale e riprendi a pensare.

Ci pensi?

Un senso del dovere che prima si affaccia alla porta e poi piano piano si fa avanti, come quando giocavi a “un due tre, stai là!” mentre contavi con gli occhi chiusi e il braccio che ti copriva il viso, appoggiato sul tronco di un albero. Un momento prima il tuo amico era a cinque metri di distanza poi, in una manciata di secondi, stava bussando alla tua spalla.

Toc, toc! Sono arrivato, ho vinto!

Il senso del dovere aveva vinto quella gara, schiacciando il suo avversario che era solo il mio bisogno di staccare la spina. Mi aveva raggiunta e inglobata, e io avevo smesso di respirare.

Respira, respira, respira.

Ti sei dimenticato di vivere, vero?

Alla fine abbandonai tutto: clienti, interviste, autori. Non ne volevo più sapere, e il solo pensiero di veder di nuovo la mia agenda così piena non mi faceva dormire la notte.

Perché quella era un’agenda riempita dai sogni di qualcun altro, e io quell’estate mi ero ripromessa che non avrei mai più messo da parte me stessa.

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Sogni, editoria e libertà

Iniziai a scrivere un libro dopo l’altro. 

Il mio stile era piaciuto all’agenzia e, dopo un primo libro di una cliente con una fantasia un po’ schizofrenica, ne arrivarono altri che buttai giù con entusiasmo, chiusa nella mia nuova stanza in cui mi ero trasferita da poco, in compagnia di altre due ragazze. 

Cercavo di organizzare il tempo come meglio potevo: la mattina lavoravo per l’altra azienda, incollata al telefono nella speranza di non essere bombardata di chiamate dai clienti. Poi pausa pranzo, caffè, mezz’oretta a letto per riposare i neuroni e via con la scrittura. Mi ero imposta un limite di 1500-2000 parole al giorno che cercavo di portare a termine il venerdì per avere libero il weekend, in cui viaggiavo in moto insieme a G alla ricerca di qualche nuovo posto da esplorare. 

Fu un periodo intenso. Ero impegnatissima ma instancabile: nei miei sogni mi vedevo scrivere una montagna di libri e chiudere il capitolo con quell’azienda terribile, per poi mettermi in proprio e proseguire da sola per la mia strada. Immaginavo un futuro senza che nessuno mi imponesse una sveglia al mattino, in cui avrei avuto il completo controllo sulla mia vita; desideravo la più assoluta libertà, nient’altro. 

La mia insofferenza verso quel lavoro cresceva sempre di più: lo trovavo snervante e monotono, ma soprattutto sapevo che non mi avrebbe portata da nessuna parte. Ma non solo: sono sempre stata una persona tanto, troppo impaziente, per cui ogni tanto dovevo azzerarmi e riportarmi all’ordine; ne avevo assoluto bisogno, se intendevo mettere in moto quel cambiamento che tanto desideravo. 

Approfittai della nuova esperienza con i libri per aggiornare il mio curriculum e contattare tutte le agenzie editoriali che trovavo sul web, alla ricerca di una soluzione che mi avrebbe permesso di liberarmi dell’altro lavoro; mi sarebbe bastato poco, una o due risposte e, forse, sarei riuscita a tenere in piedi la baracca senza l’aiuto di nessuno. 

Ma fu molto più difficile di quanto pensassi. Avevo parlato con l’agenzia stessa di questa mia intenzione, ma scoprii che il ghostwriter raramente ha un contratto: si muove da freelance nel mondo dell’editoria e, quando viene riconosciuto, riesce a portare a casa un progetto. Ma un solo libro non bastava di certo. 

Ancora non sapevo bene come muovermi nel mondo della libera professione, per cui andavo un po’ a casaccio, basandomi sulle poche informazioni che avevo in mano.

La risposta arrivò circa un mese dopo dall’inizio delle ricerche e da una persona molto più vicina di quanto mi sarei aspettata. 

Non so dire con esattezza cosa vide in me: passione, determinazione forse? 

Non si trattava di ghostwriting, ma andava bene lo stesso. Avevo bisogno di sganciarmi da quell’azienda e di farlo al più presto.

La direttrice mi propose la gestione dei clienti e degli autori dell’agenzia. Non era previsto un contratto, ma significava poter entrare finalmente nel mondo dell’editoria. 

Così non ci pensai due volte e accettai la proposta, aprii partita iva e mollai quel maledetto call center. Ero libera! 

Mantenni il mio lavoro da autrice e, nel frattempo, leggevo e valutavo i libri scritti dai ghostwriter per i loro clienti, che io stessa intervistavo per poter raccogliere il materiale necessario per ogni libro. 

Quello fu un altro passo nella direzione che mi ero ripromessa. Passo dopo passo mi stavo liberando non solo di orari limitanti, ma anche di un lavoro che sentivo rallentasse la mia crescita. Per di più, volevo scoprire il settore da vicino, perché leggere le esperienze delle persone o gli articoli che spiegavano i dietro le quinte dell’editoria non mi bastava più. 

Desideravo viverlo sulla mia pelle e farne parte. Certo, le nuove limitazioni della pandemia non mi permettevano certo di vedere gli uffici degli editori sparsi di carte e penne rosse, ma che mi importava?

Finalmente avevo la mia occasione e non vedevo l’ora di sfruttarla; anzi, a dir la verità, non realizzai subito la svolta che stava prendendo la mia vita.