Tengo l’altra mano nascosta sotto il tavolo, guardo in basso e aggiorno la pagina sullo smartphone. Compulsivamente. Senza tregua. Ogni trenta secondi.
Ti prego. Ti prego. Ti prego.
Non mi rivolgo a qualcuno di preciso. Non sono credente, non lo sono mai stata. Aspetto un segnale, quello che inseguo da anni. Mi sembra di sentirlo gridare. “Sei libera! Libera!”
Il mio cuore scalpita al solo pensiero, sento l’adrenalina che scorre in attesa del momento in cui potrò dirlo: addio e a mai più.
SE potrò dirlo. SE potrò farlo.
Così costringo tutta me stessa a tenere i piedi per terra. Potrebbe essere un altro no. È normale. Succede nella vita, sempre. Non è sbagliato, è il corso delle cose. Ma io quel corso vorrei prenderlo, ribaltarlo, sbatterlo come un vecchio tappeto e poi buttarlo nel secco. Tenetevi quel fottuto tappeto. Non lo voglio.
Ho cercato di ignorare quella parte di me. Quella che mi accende, che mi fa sentire viva. Ho provato a schiacciarla, ma appena trova uno spiraglio pouf, ecco che ritorna. Prepotente, testarda. Si impossessa di me, e io non riesco a non cederle. Si insinua sotto la pelle, mi fa sognare. Mi ricorda quando da ragazzina, dodicenne e in pubertà, ascoltavo musica romantica mentre guardavo fuori dal finestrino, immaginando un mondo in cui ballavo anche se non l’avrei mai fatto, perché rigida come un tronco e timida all’inverosimile. Ballare mi faceva sentire stupida. Lo provo tutt’ora.
Quello dei trent’anni invece, sembra più un canto, una di quelle voci tanto belle da sollevarti la pelle.
Il mio stile era piaciuto all’agenzia e, dopo un primo libro di una cliente con una fantasia un po’ schizofrenica, ne arrivarono altri che buttai giù con entusiasmo, chiusa nella mia nuova stanza in cui mi ero trasferita da poco, in compagnia di altre due ragazze.
Cercavo di organizzare il tempo come meglio potevo: la mattina lavoravo per l’altra azienda, incollata al telefono nella speranza di non essere bombardata di chiamate dai clienti. Poi pausa pranzo, caffè, mezz’oretta a letto per riposare i neuroni e via con la scrittura. Mi ero imposta un limite di 1500-2000 parole al giorno che cercavo di portare a termine il venerdì per avere libero il weekend, in cui viaggiavo in moto insieme a G alla ricerca di qualche nuovo posto da esplorare.
Fu un periodo intenso. Ero impegnatissima ma instancabile: nei miei sogni mi vedevo scrivere una montagna di libri e chiudere il capitolo con quell’azienda terribile, per poi mettermi in proprio e proseguire da sola per la mia strada. Immaginavo un futuro senza che nessuno mi imponesse una sveglia al mattino, in cui avrei avuto il completo controllo sulla mia vita; desideravo la più assoluta libertà, nient’altro.
La mia insofferenza verso quel lavoro cresceva sempre di più: lo trovavo snervante e monotono, ma soprattutto sapevo che non mi avrebbe portata da nessuna parte. Ma non solo: sono sempre stata una persona tanto, troppo impaziente, per cui ogni tanto dovevo azzerarmi e riportarmi all’ordine; ne avevo assoluto bisogno, se intendevo mettere in moto quel cambiamento che tanto desideravo.
Approfittai della nuova esperienza con i libri per aggiornare il mio curriculum e contattare tutte le agenzie editoriali che trovavo sul web, alla ricerca di una soluzione che mi avrebbe permesso di liberarmi dell’altro lavoro; mi sarebbe bastato poco, una o due risposte e, forse, sarei riuscita a tenere in piedi la baracca senza l’aiuto di nessuno.
Ma fu molto più difficile di quanto pensassi. Avevo parlato con l’agenzia stessa di questa mia intenzione, ma scoprii che il ghostwriter raramente ha un contratto: si muove da freelance nel mondo dell’editoria e, quando viene riconosciuto, riesce a portare a casa un progetto. Ma un solo libro non bastava di certo.
Ancora non sapevo bene come muovermi nel mondo della libera professione, per cui andavo un po’ a casaccio, basandomi sulle poche informazioni che avevo in mano.
La risposta arrivò circa un mese dopo dall’inizio delle ricerche e da una persona molto più vicina di quanto mi sarei aspettata.
Non so dire con esattezza cosa vide in me: passione, determinazione forse?
Non si trattava di ghostwriting, ma andava bene lo stesso. Avevo bisogno di sganciarmi da quell’azienda e di farlo al più presto.
La direttrice mi propose la gestione dei clienti e degli autori dell’agenzia. Non era previsto un contratto, ma significava poter entrare finalmente nel mondo dell’editoria.
Così non ci pensai due volte e accettai la proposta, aprii partita iva e mollai quel maledetto call center. Ero libera!
Mantenni il mio lavoro da autrice e, nel frattempo, leggevo e valutavo i libri scritti dai ghostwriter per i loro clienti, che io stessa intervistavo per poter raccogliere il materiale necessario per ogni libro.
Quello fu un altro passo nella direzione che mi ero ripromessa. Passo dopo passo mi stavo liberando non solo di orari limitanti, ma anche di un lavoro che sentivo rallentasse la mia crescita. Per di più, volevo scoprire il settore da vicino, perché leggere le esperienze delle persone o gli articoli che spiegavano i dietro le quinte dell’editoria non mi bastava più.
Desideravo viverlo sulla mia pelle e farne parte. Certo, le nuove limitazioni della pandemia non mi permettevano certo di vedere gli uffici degli editori sparsi di carte e penne rosse, ma che mi importava?
Finalmente avevo la mia occasione e non vedevo l’ora di sfruttarla; anzi, a dir la verità, non realizzai subito la svolta che stava prendendo la mia vita.