Uncategorized – Sara Tamponi
Categorie
Uncategorized

Senza titolo

Sei spaventoso.

Non hai occhi per guardarmi né bocca per parlare.

Eppure, sento che mi fissi. Quel bianco vuoto che vorrei sporcare, ma non ho il coraggio. Non l’ho più, perché non mi sento all’altezza. O forse perché non ci siamo guardati per troppo tempo. Non volevo affrontarti.

Ora ci provo, penso a cosa voglio dire. Ma nella mia testa c’è solo un motivetto di una nuova canzone che ho provato a cantare appena sveglia, con i capelli incasinati e gli occhi ancora pestati. Penso ai video di meal prep che guardo all’ora di pranzo. A comprare un frullatore. A cosa farò oggi, domani e il giorno dopo.

Poi ci sono la circolarità, le leve di persuasione, le landing page e i corsivi usati male. Sono i miei studi, le cose che sto imparando in questi mesi. C’è la rabbia per quest’anno schifoso. Cerco di spegnerla. È difficile.

Penso che si possa creare una storia dalle cose più banali. Tanti lo fanno. Ci vuole coraggio per farlo però. L’ho già detto all’inizio. Ma potrei nascondermi dietro la circolarità. Sì, ho ripetuto coraggio con uno scopo, perché così rimane impresso. Metto un’informazione in alto, poi la riporto in basso, è tutto studiato.

Ma non è vero.

Vediamo cosa esce fuori? Proviamo.

Mi sveglio con una fitta alla tempia, il mio corpo è un rottame. Ieri ho esagerato in palestra. Mi alzo dal letto e vado a fare colazione. Tolgo due pancake dal freezer e li butto in microonde. Fisso il piccolo schermo e i secondi che passano, poi prendo i pancake e li metto su un piatto, versandoci sopra un po’ di marmellata. Senza zuccheri, ci mancherebbe. Appena finisco apro la finestra. L’aria è più fredda del solito. Adesso è novembre davvero. Trascorro l’ora successiva sul divano. Leggo le notizie, scrollo i post sui social. Riascolto una canzone uscita la notte prima. Provo a cantarla, memorizzo il testo, poi chiudo Spotify e accendo il pc. Ho una bozza di un’esercitazione da consegnare. La sistemo e la mando alla docente.

Poi penso a lui. Quello che è sempre stato il mio migliore amico ma che ho deciso di ignorare per mesi. Volevo continuare a farlo, ma sono un po’ tentata. Fisso l’icona per qualche secondo, poi ci clicco sopra.

Eccolo. Il foglio bianco spaventoso, senza occhi né bocca. Sento che mi giudica. O forse non ci siamo guardati per troppo tempo.

Categorie
Uncategorized

Rapisce come il canto

Parla e fingo di ascoltarla.

Annuisco quando chiede un feedback.

“Certo, chiaro. Ho capito”

Tengo l’altra mano nascosta sotto il tavolo, guardo in basso e aggiorno la pagina sullo smartphone. Compulsivamente. Senza tregua. Ogni trenta secondi.

Ti prego. Ti prego. Ti prego.

Non mi rivolgo a qualcuno di preciso. Non sono credente, non lo sono mai stata. Aspetto un segnale, quello che inseguo da anni. Mi sembra di sentirlo gridare. “Sei libera! Libera!”

Il mio cuore scalpita al solo pensiero, sento l’adrenalina che scorre in attesa del momento in cui potrò dirlo: addio e a mai più.

SE potrò dirlo. SE potrò farlo.

Così costringo tutta me stessa a tenere i piedi per terra. Potrebbe essere un altro no. È normale. Succede nella vita, sempre. Non è sbagliato, è il corso delle cose. Ma io quel corso vorrei prenderlo, ribaltarlo, sbatterlo come un vecchio tappeto e poi buttarlo nel secco. Tenetevi quel fottuto tappeto. Non lo voglio.

Ho cercato di ignorare quella parte di me. Quella che mi accende, che mi fa sentire viva. Ho provato a schiacciarla, ma appena trova uno spiraglio pouf, ecco che ritorna. Prepotente, testarda. Si impossessa di me, e io non riesco a non cederle. Si insinua sotto la pelle, mi fa sognare. Mi ricorda quando da ragazzina, dodicenne e in pubertà, ascoltavo musica romantica mentre guardavo fuori dal finestrino, immaginando un mondo in cui ballavo anche se non l’avrei mai fatto, perché rigida come un tronco e timida all’inverosimile. Ballare mi faceva sentire stupida. Lo provo tutt’ora.

Quello dei trent’anni invece, sembra più un canto, una di quelle voci tanto belle da sollevarti la pelle.

Non riesco a resistergli.

Categorie
Uncategorized

Script test

  1. L’utente visualizza la propria dashboard;
  2. Tra le icone a disposizione sulla dashboard, l’utente può scegliere tra “vita” o “lavoro”, caratterizzate rispettivamente dai colori blu e grigio;
  3. L’utente clicca su “vita”, ma il pulsante non si accende;
  4. L’utente clicca sul pulsante “lavoro”;
  5. L’utente accede all’area “lavoro”, dalla quale può visualizzare i relativi dettagli;
  6. L’area “lavoro”, in basso a destra, mostra una dicitura cliccabile denominata “visualizza opzioni avanzate”
  7. L’utente accede alle opzioni avanzate;
  8. Una volta effettuato l’accesso all’area sopracitata, l’utente si schianta su una pagina con sfondo bianco, apparentemente errata, caratterizzata dalla seguente dicitura:

“Error 404: ti ho preso in giro. Il pulsante “vita” non esiste. Lavora, str***o”

L’utente torna alla pagina precedente. L’utente clicca sul badge posizionato in alto a destra sulla pagina, caratterizzato dalle sue iniziali. L’utente clicca sul badge. L’utente effettua il logout.

L’elenco puntato iniziava a darmi sui nervi. Scelta stilistica, direbbe l’artista. Io preferisco chiamarla pigrizia.

Ah, dimenticavo.

Risultato atteso: l’utente accede alle icone “vita” e “lavoro” presenti sulla propria dashboard.

Bug: (o forse no?): il pulsante “vita” non si accende.

Categorie
Uncategorized

Puzzle

Un pezzo del puzzle va via.

Sapevo fin dall’inizio che non ne facesse parte, eppure in qualche modo si incastrava. Aveva smussato i suoi angoli, aveva adattato la sua forma con tanto sforzo. Sapeva che avrebbe rischiato di piegarsi, ma era pronto a farlo, perché conscio che non sarebbe rimasto lì per sempre.

Ogni giorno il pezzo aveva una nuova crepa, ma resisteva. Nel frattempo, cercava disperatamente l’altro puzzle, quello vero. Il suo.

Sono stata a fianco a quel pezzo fin dal primo giorno. Ci lamentavamo, le nostre parole consumavano il cartone lentamente, perché trovavamo inaccettabile stare in quel posto così scomodo. Così sbagliato. Tra noi, però, c’è sempre stato un terzo pezzo: quello saggio, forte, ottimista. Ci diceva di resistere, che capiva. Lei capiva.

Ora, il primo pezzo ha trovato il suo posto, tra decine di puzzle sparsi qua e là. Lo guardo e sorrido. Tra poco dovrò salutarlo.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Due volte in due mesi.

Il mio cartone è bagnato, ma so che si asciugherà, come sempre, pronto a riadattarsi ma non a piegarsi.

Piegarsi no, mai.

Categorie
Uncategorized

Puntura indolore (o quasi)

Mi sfioro il collo e lo sento. È ancora lì. Un piccolo puntino in rilievo sulla pelle.

Due settimane fa mi ha punto una vespa e non ho sentito nulla. O almeno, quasi. Il mio cervello era spento a uno punto tale da cancellare il dolore. C’era solo l’acqua di una piscina, un trampolino, belle persone. E poi verde, tanto verde, insieme a un profumo di pino che mi pizzicava le narici.

È stato bello, quel giorno. I problemi non esistevano. Non sentivo la mia testa rimbalzare impazzita come una pallina da ping pong. Non sentivo il mio stomaco lamentarsi. Sembrava una magia, qualcosa di surreale.

Dalle undici del mattino alle undici di notte non c’è stato dolore, frustrazione, paura. Confusione.

Alle 23.30, poi, è tornato.

Ahi, ho pensato, sfiorandomi il collo.

Era finito, ma io avrei voluto che quel sogno durasse per sempre.

Sette e ventitré, mi ha ricordato una vocina simpatica nella mia mente che avrei tanto voluto prendere a pugni.

Ho chiuso gli occhi.

Un giorno finirà.

Categorie
Uncategorized

Sebastiano

“Friggitrice ad aria” cita una copertina verde fluo.

Mah.

La libreria è disordinata, con volumi su volumi impilati sul pavimento. C’è persino un cagnetto che sonnecchia di fronte a uno scaffale sul suo piccolo cuscino. Mi viene difficile passare, ho paura di pestargli una zampa, così mi avvicino ai titoli per leggerli meglio, in punta di piedi. E di fianco al libro sulla friggitrice sta uno sui fiori. Poi uno sulla meditazione. Un altro sul mangiare sano. Li studio uno a uno, con attenzione, alla ricerca di una logica che non c’è. Sono venuta qui per cancellare le ombre, per fare chiarezza nella mia mente, ma la libreria è più confusa di me. Il cagnetto inizia ad abbaiare.

<<Sebastiano!>> lo rimprovera la commessa, poi lo prende in braccio ed esce fuori, lasciando il negozio incustodito. Continuo a girare tra gli scaffali, guardando i titoli dei volumi e delle sezioni: psicologia, fantasy, letteratura classica. Apro alcuni libri, li sfoglio, leggo qualche riga. Niente da fare. Mi arrendo.

Lascio la libreria, entro in profumeria e prendo un rossetto color mattone, poi mi passo la mano tra i capelli. Sembrano paglia. Scelgo un balsamo a caso e vado alla cassa.

Esco dal negozio e mi siedo su una panchina. Recupero il rossetto e lo smartphone dalla borsa, apro la fotocamera e passo la tinta rossa sulle labbra, poi mi guardo.

Meglio.

Rimango qualche minuto seduta di fronte alla libreria, noto la commessa chiudere la porta a chiave.

Certo che Sebastiano, per un cane, è proprio un nome stupido.

Categorie
Uncategorized

Specchio

<<Ciò che vorrei non posso averlo, ciò che ho non lo voglio, non mi interessa. Capisci?>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Il suo viso è tirato, lo sguardo confuso, le labbra atteggiate in una perenne smorfia triste.

<<A quest’ora, in questo periodo dell’anno, la mia pelle è di un altro colore, invece guardami. Guardami! Quel maledetto verdastro che è parte di me, quest’anno dovrò tenerlo. E sai perché?>>

Non risponde, di nuovo.

<<Te lo dico io, perché. Perché il mare non lo vedo più. Perché la mia vita non è più vita, è solo un susseguirsi di sveglia sette e ventitré sette e ventitré sette e ventitré per cinque giorni alla settimana finché poi arriva il sabato e posso pensare. Posso guardarmi, e quello che vedo è ciò che non avrei mai voluto. Ah, i trent’anni!>>

Batto il palmo aperto sul marmo del lavandino e subito dopo me lo porto alla bocca, come se quel gesto potesse alleviare il dolore. I miei occhi si fanno lucidi ma poi faccio un respiro profondo.

<<Non posso piangere, no. Non posso perché fa male. Se piango una volta sto male una settimana, sai? Forse anche due. Ah, ma lo sai già. Chi meglio di te!>>

Rido, e ride anche l’altra, ma dura poco.

<<Non so più niente. Non ho più me. Mi rimane questo, questi pensieri disordinati e senza senso, ma fanno schifo, sai? Non piacciono a nessuno>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Distolgo lo sguardo dallo specchio ed esco dal bagno.

Pain sarà il mio prossimo tatuaggio.

Categorie
Uncategorized

Non

Non lascerò più

che il mondo dei sogni mi sussurri bugie all’orecchio.

Non lascerò più

che le persone possano approfittarsi della gentilezza.

Non lascerò più

Che le emozioni possano offuscare il mio giudizio.

Non ascolterò più

le lacrime che minacciano di uscire al sentir una canzone.

Non ascolterò più

Il cuore che batte forte quando qualcosa va storto.

Non ascolterò più

i suggerimenti di chi in realtà non vuole far del bene.

Non guarderò più

l’estate che va via in silenzio senza prima salutarmi.

Non guarderò più

il futuro con occhi accecati dal sogno.

Non guarderò più

in una sola direzione.

Questa è una lettera per me stessa,

e la invito a leggerla, ogni volta che sentirà il coraggio mancarle.

Categorie
Uncategorized

In fondo alla vaccheria, tra le strade senza cemento

C’era il profumo dei fiori, i colori della frutta, le radici scoperte dalla terra.

C’era una casa vicino al mare in cui vivevano due vecchietti che non si fermavano mai.

Quando la ragazza andava a trovarli, la nonna era sempre ai fornelli mentre il nonno zappava la terra. Non volevano e non potevano fermarsi.

<<Non portatemi mai via di qui>> diceva lui <<ne morirei>>.

Le parlavano di un mondo in cui i palazzi non esistevano e le persone la sera chiacchieravano, seduti fuori dalle porte delle loro case.

C’era un posto vicino alla casa del nonno che chiamavano vaccheria. Lì andava sempre a prendere il latte in un contenitore di metallo, e quando lo cuoceva faceva una schiuma alta. Era latte grasso e pieno di panna.

Il nonno amava tanto la nonna. Diceva di essere la sua ancora, e lei aveva sempre un fare un po’ scorbutico. Quando lui però la guardava il suo viso si addolciva. Leggeva nei suoi occhi amore, venerazione e anche un po’ di ironia.

I nonni scherzavano e si punzecchiavano sempre, e quando i nipoti andavano a trovarli li vedevano sparire in mezzo all’orto all’improvviso, alla ricerca delle zucchine più grosse e delle pesche più mature.

Gioivano delle piccole cose. Bastava il sorriso della figlia ad accendergli l’animo e la memoria, sepolta da anni vissuti intensamente, di amore e senza tregua.

Quando poi la ragazza tornava a casa sentiva sempre un po’ di malinconia, perché il suo non era un mondo in cui ci si poteva accontentare di poco. Era fatto di speranze affievolite, di competizione e fame di successo. Così si aggrappava al ricordo della vaccheria, delle strade senza cemento e del vociare la sera, fuori dalle case. Pensava all’amore dei nonni, al loro gioire per le chiacchiere e alla compagnia che gli riaccendeva l’animo, e le tornava il sorriso.

Il loro era un mondo felice.

Categorie
Uncategorized

Dove sei finita?

Qui il mio ragazzo cercava di curare il mio mal di testa con il mare e con le pietre <3

Quando iniziai la gestione dei clienti in agenzia ero talmente entusiasta per essere arrivata “lì dentro” da dimenticare tutto il resto.

Neanche un mese dopo smisi di scrivere, accantonando le emozioni che tanto avevo rincorso.

Il ghostwriting può aspettare, mi dicevo.

La mia agenda iniziò a riempirsi di impegni che annullarono del tutto lo spazio per me stessa, ma non ne fui subito turbata; pensavo fosse giusto così, e che un giorno avrei ripreso da dove avevo interrotto.

Quel giorno però diventarono due settimane, poi un mese, poi sei. Dimenticai la scrittura, e quando mi veniva in mente scacciavo il pensiero, fingendo non fosse nulla di importante.

“Beh, S, a un certo punto anche per me è stato lo stesso. Ho smesso di scrivere perché non mi bastava. Volevo qualcosa di più. E credo che in fondo sia questa la tua strada”.

Credetti di non dare peso a quelle parole, eppure mi entrarono dentro più di quanto pensassi. Più mi allontanavo dalla scrittura, più pensavo che in fondo avesse senso.

Successe per mesi finché scoppiai.

La mia frustrazione e i miei sogni accantonati sfondarono la porta e mi fecero a pezzi. Ma, in fin dei conti, ero io l’unica responsabile; loro si erano solo limitati a ricordarmelo.

Così una sera scrissi queste parole.

Quando le rileggo, mi sembra di rivivere di nuovo quel periodo.

Non so dire quando successe.

L’unica cosa che sentivo era un forte malessere che cresceva dentro di me giorno dopo giorno, sempre più intenso e fastidioso.

Avevo dedicato talmente tanto tempo a ciò che andava fatto che a un certo punto smarrii la mia strada. L’unico vero obbiettivo era fare fare fare completare tutti i task per arrivare a fine giornata senza un pensiero per il giorno dopo.

E poi quel senso di frustrazione, di incompletezza per non essere riuscita a fare tutto. Cercavo di vivere al massimo la vita professionale, ma la mia di vita? I miei bisogni, i desideri, ciò che avrebbe dovuto avere la priorità sul resto? Stavo vivendo professionalmente la mia vita personale?

Probabilmente no.

Gli attimi di felicità non mancavano ma erano troppo brevi, un momento di euforia al quale seguiva subito una preoccupazione. E l’entusiasmo si spegneva veloce così come era arrivato, senza lasciare alcuna traccia se non una flebile sensazione, persa chissà dove, in fondo in fondo in un angolino.

Allora via una sigaretta dopo l’altra, la gola brucia ma è l’unica cosa che vuoi sentire e ti viene il mal di testa solo a pensare al prossimo compito che dovrai portare a termine. E i tuoi sogni? Dove sono? Dov’è la tua voglia di emozionarti, di crescere, di migliorarti?

E il sole? Riesci a sentire il suo calore sulla pelle? L’estate è là fuori. Aspetti sempre questo momento per bruciare al sole, ma poi fa troppo caldo e l’acqua di mare è un sollievo. I neuroni si riattivano, la pressione risale e riprendi a pensare.

Ci pensi?

Un senso del dovere che prima si affaccia alla porta e poi piano piano si fa avanti, come quando giocavi a “un due tre, stai là!” mentre contavi con gli occhi chiusi e il braccio che ti copriva il viso, appoggiato sul tronco di un albero. Un momento prima il tuo amico era a cinque metri di distanza poi, in una manciata di secondi, stava bussando alla tua spalla.

Toc, toc! Sono arrivato, ho vinto!

Il senso del dovere aveva vinto quella gara, schiacciando il suo avversario che era solo il mio bisogno di staccare la spina. Mi aveva raggiunta e inglobata, e io avevo smesso di respirare.

Respira, respira, respira.

Ti sei dimenticato di vivere, vero?

Alla fine abbandonai tutto: clienti, interviste, autori. Non ne volevo più sapere, e il solo pensiero di veder di nuovo la mia agenda così piena non mi faceva dormire la notte.

Perché quella era un’agenda riempita dai sogni di qualcun altro, e io quell’estate mi ero ripromessa che non avrei mai più messo da parte me stessa.