scrittura – Sara Tamponi
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Rapisce come il canto

Parla e fingo di ascoltarla.

Annuisco quando chiede un feedback.

“Certo, chiaro. Ho capito”

Tengo l’altra mano nascosta sotto il tavolo, guardo in basso e aggiorno la pagina sullo smartphone. Compulsivamente. Senza tregua. Ogni trenta secondi.

Ti prego. Ti prego. Ti prego.

Non mi rivolgo a qualcuno di preciso. Non sono credente, non lo sono mai stata. Aspetto un segnale, quello che inseguo da anni. Mi sembra di sentirlo gridare. “Sei libera! Libera!”

Il mio cuore scalpita al solo pensiero, sento l’adrenalina che scorre in attesa del momento in cui potrò dirlo: addio e a mai più.

SE potrò dirlo. SE potrò farlo.

Così costringo tutta me stessa a tenere i piedi per terra. Potrebbe essere un altro no. È normale. Succede nella vita, sempre. Non è sbagliato, è il corso delle cose. Ma io quel corso vorrei prenderlo, ribaltarlo, sbatterlo come un vecchio tappeto e poi buttarlo nel secco. Tenetevi quel fottuto tappeto. Non lo voglio.

Ho cercato di ignorare quella parte di me. Quella che mi accende, che mi fa sentire viva. Ho provato a schiacciarla, ma appena trova uno spiraglio pouf, ecco che ritorna. Prepotente, testarda. Si impossessa di me, e io non riesco a non cederle. Si insinua sotto la pelle, mi fa sognare. Mi ricorda quando da ragazzina, dodicenne e in pubertà, ascoltavo musica romantica mentre guardavo fuori dal finestrino, immaginando un mondo in cui ballavo anche se non l’avrei mai fatto, perché rigida come un tronco e timida all’inverosimile. Ballare mi faceva sentire stupida. Lo provo tutt’ora.

Quello dei trent’anni invece, sembra più un canto, una di quelle voci tanto belle da sollevarti la pelle.

Non riesco a resistergli.

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Puntura indolore (o quasi)

Mi sfioro il collo e lo sento. È ancora lì. Un piccolo puntino in rilievo sulla pelle.

Due settimane fa mi ha punto una vespa e non ho sentito nulla. O almeno, quasi. Il mio cervello era spento a uno punto tale da cancellare il dolore. C’era solo l’acqua di una piscina, un trampolino, belle persone. E poi verde, tanto verde, insieme a un profumo di pino che mi pizzicava le narici.

È stato bello, quel giorno. I problemi non esistevano. Non sentivo la mia testa rimbalzare impazzita come una pallina da ping pong. Non sentivo il mio stomaco lamentarsi. Sembrava una magia, qualcosa di surreale.

Dalle undici del mattino alle undici di notte non c’è stato dolore, frustrazione, paura. Confusione.

Alle 23.30, poi, è tornato.

Ahi, ho pensato, sfiorandomi il collo.

Era finito, ma io avrei voluto che quel sogno durasse per sempre.

Sette e ventitré, mi ha ricordato una vocina simpatica nella mia mente che avrei tanto voluto prendere a pugni.

Ho chiuso gli occhi.

Un giorno finirà.

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Dove sei finita?

Qui il mio ragazzo cercava di curare il mio mal di testa con il mare e con le pietre <3

Quando iniziai la gestione dei clienti in agenzia ero talmente entusiasta per essere arrivata “lì dentro” da dimenticare tutto il resto.

Neanche un mese dopo smisi di scrivere, accantonando le emozioni che tanto avevo rincorso.

Il ghostwriting può aspettare, mi dicevo.

La mia agenda iniziò a riempirsi di impegni che annullarono del tutto lo spazio per me stessa, ma non ne fui subito turbata; pensavo fosse giusto così, e che un giorno avrei ripreso da dove avevo interrotto.

Quel giorno però diventarono due settimane, poi un mese, poi sei. Dimenticai la scrittura, e quando mi veniva in mente scacciavo il pensiero, fingendo non fosse nulla di importante.

“Beh, S, a un certo punto anche per me è stato lo stesso. Ho smesso di scrivere perché non mi bastava. Volevo qualcosa di più. E credo che in fondo sia questa la tua strada”.

Credetti di non dare peso a quelle parole, eppure mi entrarono dentro più di quanto pensassi. Più mi allontanavo dalla scrittura, più pensavo che in fondo avesse senso.

Successe per mesi finché scoppiai.

La mia frustrazione e i miei sogni accantonati sfondarono la porta e mi fecero a pezzi. Ma, in fin dei conti, ero io l’unica responsabile; loro si erano solo limitati a ricordarmelo.

Così una sera scrissi queste parole.

Quando le rileggo, mi sembra di rivivere di nuovo quel periodo.

Non so dire quando successe.

L’unica cosa che sentivo era un forte malessere che cresceva dentro di me giorno dopo giorno, sempre più intenso e fastidioso.

Avevo dedicato talmente tanto tempo a ciò che andava fatto che a un certo punto smarrii la mia strada. L’unico vero obbiettivo era fare fare fare completare tutti i task per arrivare a fine giornata senza un pensiero per il giorno dopo.

E poi quel senso di frustrazione, di incompletezza per non essere riuscita a fare tutto. Cercavo di vivere al massimo la vita professionale, ma la mia di vita? I miei bisogni, i desideri, ciò che avrebbe dovuto avere la priorità sul resto? Stavo vivendo professionalmente la mia vita personale?

Probabilmente no.

Gli attimi di felicità non mancavano ma erano troppo brevi, un momento di euforia al quale seguiva subito una preoccupazione. E l’entusiasmo si spegneva veloce così come era arrivato, senza lasciare alcuna traccia se non una flebile sensazione, persa chissà dove, in fondo in fondo in un angolino.

Allora via una sigaretta dopo l’altra, la gola brucia ma è l’unica cosa che vuoi sentire e ti viene il mal di testa solo a pensare al prossimo compito che dovrai portare a termine. E i tuoi sogni? Dove sono? Dov’è la tua voglia di emozionarti, di crescere, di migliorarti?

E il sole? Riesci a sentire il suo calore sulla pelle? L’estate è là fuori. Aspetti sempre questo momento per bruciare al sole, ma poi fa troppo caldo e l’acqua di mare è un sollievo. I neuroni si riattivano, la pressione risale e riprendi a pensare.

Ci pensi?

Un senso del dovere che prima si affaccia alla porta e poi piano piano si fa avanti, come quando giocavi a “un due tre, stai là!” mentre contavi con gli occhi chiusi e il braccio che ti copriva il viso, appoggiato sul tronco di un albero. Un momento prima il tuo amico era a cinque metri di distanza poi, in una manciata di secondi, stava bussando alla tua spalla.

Toc, toc! Sono arrivato, ho vinto!

Il senso del dovere aveva vinto quella gara, schiacciando il suo avversario che era solo il mio bisogno di staccare la spina. Mi aveva raggiunta e inglobata, e io avevo smesso di respirare.

Respira, respira, respira.

Ti sei dimenticato di vivere, vero?

Alla fine abbandonai tutto: clienti, interviste, autori. Non ne volevo più sapere, e il solo pensiero di veder di nuovo la mia agenda così piena non mi faceva dormire la notte.

Perché quella era un’agenda riempita dai sogni di qualcun altro, e io quell’estate mi ero ripromessa che non avrei mai più messo da parte me stessa.

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Sogni, editoria e libertà

Iniziai a scrivere un libro dopo l’altro. 

Il mio stile era piaciuto all’agenzia e, dopo un primo libro di una cliente con una fantasia un po’ schizofrenica, ne arrivarono altri che buttai giù con entusiasmo, chiusa nella mia nuova stanza in cui mi ero trasferita da poco, in compagnia di altre due ragazze. 

Cercavo di organizzare il tempo come meglio potevo: la mattina lavoravo per l’altra azienda, incollata al telefono nella speranza di non essere bombardata di chiamate dai clienti. Poi pausa pranzo, caffè, mezz’oretta a letto per riposare i neuroni e via con la scrittura. Mi ero imposta un limite di 1500-2000 parole al giorno che cercavo di portare a termine il venerdì per avere libero il weekend, in cui viaggiavo in moto insieme a G alla ricerca di qualche nuovo posto da esplorare. 

Fu un periodo intenso. Ero impegnatissima ma instancabile: nei miei sogni mi vedevo scrivere una montagna di libri e chiudere il capitolo con quell’azienda terribile, per poi mettermi in proprio e proseguire da sola per la mia strada. Immaginavo un futuro senza che nessuno mi imponesse una sveglia al mattino, in cui avrei avuto il completo controllo sulla mia vita; desideravo la più assoluta libertà, nient’altro. 

La mia insofferenza verso quel lavoro cresceva sempre di più: lo trovavo snervante e monotono, ma soprattutto sapevo che non mi avrebbe portata da nessuna parte. Ma non solo: sono sempre stata una persona tanto, troppo impaziente, per cui ogni tanto dovevo azzerarmi e riportarmi all’ordine; ne avevo assoluto bisogno, se intendevo mettere in moto quel cambiamento che tanto desideravo. 

Approfittai della nuova esperienza con i libri per aggiornare il mio curriculum e contattare tutte le agenzie editoriali che trovavo sul web, alla ricerca di una soluzione che mi avrebbe permesso di liberarmi dell’altro lavoro; mi sarebbe bastato poco, una o due risposte e, forse, sarei riuscita a tenere in piedi la baracca senza l’aiuto di nessuno. 

Ma fu molto più difficile di quanto pensassi. Avevo parlato con l’agenzia stessa di questa mia intenzione, ma scoprii che il ghostwriter raramente ha un contratto: si muove da freelance nel mondo dell’editoria e, quando viene riconosciuto, riesce a portare a casa un progetto. Ma un solo libro non bastava di certo. 

Ancora non sapevo bene come muovermi nel mondo della libera professione, per cui andavo un po’ a casaccio, basandomi sulle poche informazioni che avevo in mano.

La risposta arrivò circa un mese dopo dall’inizio delle ricerche e da una persona molto più vicina di quanto mi sarei aspettata. 

Non so dire con esattezza cosa vide in me: passione, determinazione forse? 

Non si trattava di ghostwriting, ma andava bene lo stesso. Avevo bisogno di sganciarmi da quell’azienda e di farlo al più presto.

La direttrice mi propose la gestione dei clienti e degli autori dell’agenzia. Non era previsto un contratto, ma significava poter entrare finalmente nel mondo dell’editoria. 

Così non ci pensai due volte e accettai la proposta, aprii partita iva e mollai quel maledetto call center. Ero libera! 

Mantenni il mio lavoro da autrice e, nel frattempo, leggevo e valutavo i libri scritti dai ghostwriter per i loro clienti, che io stessa intervistavo per poter raccogliere il materiale necessario per ogni libro. 

Quello fu un altro passo nella direzione che mi ero ripromessa. Passo dopo passo mi stavo liberando non solo di orari limitanti, ma anche di un lavoro che sentivo rallentasse la mia crescita. Per di più, volevo scoprire il settore da vicino, perché leggere le esperienze delle persone o gli articoli che spiegavano i dietro le quinte dell’editoria non mi bastava più. 

Desideravo viverlo sulla mia pelle e farne parte. Certo, le nuove limitazioni della pandemia non mi permettevano certo di vedere gli uffici degli editori sparsi di carte e penne rosse, ma che mi importava?

Finalmente avevo la mia occasione e non vedevo l’ora di sfruttarla; anzi, a dir la verità, non realizzai subito la svolta che stava prendendo la mia vita.

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Quando scoprii il ghostwriting

Ricordi il libro sull’uncinetto? 

Devo ammettere che, dopo averlo letto a distanza di tempo, l’ho trovato piuttosto noioso. Per quanto quelle creazioni colorate siano davvero carine, cimentarmi in quell’attività da persone pazienti non mi è mai passato per la testa. 

Beh, per fortuna l’universo – metaforicamente parlando – è venuto in mio aiuto, dandomi la possibilità di dedicarmi alla scrittura di qualcosa di molto più interessante.

Ma te lo svelerò tra poco, prima facciamo un passo indietro. 

Mia madre è sempre stata una persona molto spiritosa, quella dalla battuta per cui hai bisogno di un attimo per decifrarla perché magari solo lei è in grado di capirla; e, quando poi te la spiega con occhietto ammiccante, effettivamente sì, fa ridere. 

Quando scrissi il manuale ricordo che mi trovavo in cucina immersa nel delirio delle tecniche di amigurumi (in italiano, i pupazzetti che puoi creare con l’uncinetto) mentre lei stirava nella stanza a fianco, ascoltando paziente tutti i miei timori sul non riuscire a rispettare le scadenze. 

Posso dire che visse insieme a me l’esperienza. Quando finii il manuale – cosa che mi succede tutt’ora – piansi dall’emozione e lei mi prese in giro bonariamente per la mia emotività eccessiva; però, rimase sempre lì con me. Non mi abbandonò mai, neanche per un istante, ed era sempre pronta a sostenere i miei progetti. 

Ricordo che, qualche giorno dopo la fine di quell’odissea, mi chiamò in camera sua per dirmi che voleva mostrarmi una cosa: mi porse una bustina e all’interno trovai degli uncinetti in acciaio di diverse misure. Li guardai emozionata, alzai la testa e le sorrisi: sapeva perfettamente cosa significassero per me. Dopo averla ringraziata, mi guardò seria e mi disse: 

<<Questo è per aver concluso il tuo primo libro. Sono sicura che sarà uno dei tanti>>

Ero elettrizzata. Per me gli uncinetti erano solo l’inizio di una lunga strada che non vedevo l’ora di scoprire. 

Ma, per quanto i libri siano da sempre il mio più grande amore, non mi facevano guadagnare abbastanza, e neanche una settimana dopo iniziai un altro lavoro. 

Era noioso, ripetitivo, alienante ma necessario, perché mi avrebbe permesso di compiere qualche passo in più nella direzione che avevo stabilito. 

Resisti, mi dissi, e ancora oggi me lo ripeto. Coltivare un sogno richiede tempo, costanza e pazienza; e io paziente non lo sono mai stata, ma sapevo anche quanto fosse forte il desiderio di raggiungere il mio obiettivo.

Così, mi arrivò una proposta in un momento inaspettato, mentre tentavo ogni tipo di approccio nella speranza di ricevere anche solo un briciolo di considerazione. Nella testa avevo un pensiero fisso, anzi, per meglio dire un’immagine: una piccola Sara che tentava di farsi spazio tra la folla, con gli occhiali sbilenchi e un quaderno e una penna in mano: 

Ehi! Ehi! Ci sono anch’io, leggimi! 

Nel frattempo bazzicavo su ogni sito che mi capitava sotto mano per conoscere più da vicino l’identità di quella figura nascosta che nessuno conosceva, capace però di dare vita a delle storie bellissime. 

Insomma, evidentemente qualcuno un giorno aveva preso il suo binocolo e scoperto quella piccola Sara che si sbracciava, perché quel qualcuno mi scrisse. 

Era una mattina di marzo, che avevo trascorso in compagnia di clienti che si lamentavano al telefono per la loro connessione difettosa. 

Contavo i minuti in attesa della pausa e, quando arrivò, buttai un occhio al telefono e vidi una notifica: potevo leggere solo l’anteprima, ma avevo troppo poco tempo per approfondire. Una parola però mi aveva subito colpita: libro

Avevo trascorso diversi anni cercando di mettermi in contatto con una casa editrice. Intasavo le loro caselle di posta per ottenere qualsiasi cosa: mi sarebbe bastato poco per ritagliarmi il mio piccolo spazio in quella realtà. Dopo quel manuale, poi, la mia immagine mentale di pile di fogli e penne rosse si era ripresentata con forza e pretendeva di essere accontentata. 

Fatto sta che quella mattina mi contattò un’agenzia editoriale proponendomi di scrivere una storia, per la precisione una biografia aziendale. Ciò significava che, per la prima volta, avrei potuto scrivere il libro di una persona vera, con i suoi drammi e i suoi successi. Sarei diventata una scrittrice fantasma. 

L’uncinetto era stato solo l’inizio: mi aveva dato tantissime emozioni, ma stavolta si trattava di una storia vera, la prima in assoluto in cui avrei potuto finalmente mettermi alla prova.

Quella mattina, al rientro dal lavoro, chiamai mia madre con due lacrimoni giganti e la voce tremante: qualcuno aveva deciso di darmi fiducia, dunque i miei sforzi – e i miei uncinetti – erano serviti. 

Quel libro diede vita a un secondo, poi a un terzo e un quarto: i miei contatti si ampliarono e le mie capacità crebbero ogni giorno di più. 

Rimanevo sempre nell’ombra, perché sui libri il mio nome non c’era mai. 

Ero e sono una scrittrice fantasma: quelle storie vedono la luce ma non si può dire lo stesso per la mia identità. Raccolgo sogni, ne faccio tesoro e butto giù delle storie. 

Vidi così un altro tassello aggiungersi, un’altra tappa prendere forma nella mia mente. 

Le mie incertezze iniziarono a svanire, in favore di una realtà che mi vedeva rendere felice gli altri servendomi della scrittura. 

Così ho scoperto la mia passione per il ghostwriting. 

Avevo sempre amato le storie, vere o meno, e quella fu l’occasione perfetta per fare mie quelle esperienze, in un certo senso. 

Potevo scoprire le persone, aiutarle, capirle. 

E non potevo essere più felice.

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Cosa vuoi fare da grande?

<<Cosa vuoi fare da grande?>> 

Eccola, la magica domanda dei parenti al pranzo della domenica. 

Ero al terzo anno delle medie e nei banchi di scuola iniziavano a comparire tutti quei volantini sull’orientamento che ti avrebbero indicato la tua strada e fatto scoprire la tua passione. Avevo tredici anni e l’unica cosa a cui pensavo era quel ragazzino che in tre anni non mi aveva mai degnata di uno sguardo perché ero troppo magra, bruttina e con gli occhiali. E chi pensava al proprio futuro?!

Da quel momento iniziai a pormi la fatidica domanda perché non potevo più sfuggirle: te lo chiedevano i professori, così come i genitori e i nonni al pranzo della domenica. Ma io non ne avevo davvero idea. Aspettavo con ansia l’arrivo dell’estate per salire sulla canoa e andare al largo sugli scogli, da cui staccavo le patelle per sentire il sapore del mare sulla lingua. 

Decisi allora di scavare tra le mie scarse conoscenze e mi concentrai sull’unica cosa con cui pensavo di cavarmela: le lingue straniere. Già dai primi anni delle elementari avevo mostrato una certa propensione per lo spagnolo, ero brava con la pronuncia e memorizzavo tutto facilmente. 

Poi, durante le scuole medie, la mia insegnante di inglese mi disse che quella delle lingue era la mia strada. Certo, era una fumatrice incallita con la pelle stramacchiata. Le fotocopie che distribuiva in classe puzzavano di sigaretta e la sua voce roca mi faceva un po’ paura, ma la ascoltai ugualmente. I miei genitori si trovarono d’accordo con lei e mi iscrissi al liceo linguistico. 

Gli anni successivi ebbi la dimostrazione da me stessa che, nonostante di studiare non mi fregasse una cippa, le lingue straniere non mi richiedevano granché impegno; così mi convinsi che quello sarebbe stato il mio percorso. 

Con il passare degli anni diventai sempre più brava, la mia dimestichezza con l’inglese e lo spagnolo aumentarono e puoi immaginare quale indirizzo scelsi all’università: lingue e comunicazione. Scontato. Del resto, ero brava, no? 

Beh, in realtà, quando a diciannove anni iniziai il nuovo percorso di studi, mi si aprì un mondo. L’indirizzo aveva pregi e difetti: da una parte era disorganizzato, poco coerente e privo di una direzione ben precisa. Dall’altra, la varietà dei corsi accese il mio interesse su strade che non avevo mai considerato: giornalismo, comunicazione pubblicitaria, traduzione, scrittura.

Le scelte erano troppe, io ero una perenne indecisa e non sapevo dove sbattere la testa: troppi stimoli ma poche certezze. 

In quegli stessi anni, quella fastidiosa domanda si ripresentò in veste adulta, e nuovamente mi chiese: cosa vuoi fare da grande? 

Non lo sapevo. Mi piacevano tutti i corsi che frequentavo ma non bastava. Ogni tanto, però, nella mia mente si affacciava un’immagine: camminavo in mezzo ai grattacieli, con una tenuta da ufficio e una valigetta alla mano, mentre con l’altra reggevo il telefono che era perennemente attaccato al mio orecchio. 

Tutto sempre, troppo vago. Che diamine significa?, mi chiedevo. 

Mi trascinai quell’immagine per diversi anni, ma non seppi mai darle un nome: un contesto amministrativo forse? Sì, ma in cosa? E i miei punti di domanda aumentavano. 

Beh, posso dirti che quell’immagine mi accompagnò per diversi anni finché si sostituì a un’altra. China sulla scrivania sotto la luce di una lampadina, mi vedevo intenta a correggere pile e pile di fogli con una penna rossa, leggendoli avidamente alla ricerca della forma perfetta che avrebbe reso un libro vero quel manoscritto disordinato. 

E stavolta invece, di che si trattava? mi chiesi, ancora. 

Te lo spiegherò più avanti.

Mi laureai e, con il passare dei mesi, misi da parte quelle immagini perché troppo presa dalla ricerca di un lavoro. 

Impiegai un po’ di tempo a trovarlo, finché approdai in una libreria. I libri mi sono sempre piaciuti, e girare tra gli scaffali ad annusarli mi piaceva ancora di più: ma sentivo di non essere felice come avrei voluto. Mi mancava qualcosa, ma quel qualcosa era un cartoncino di un gioco a premi con un enorme punto interrogativo: come avrei fatto a capire? Sarei dovuta andare per esclusione in eterno, fino a trovare la risposta alle mie domande? 

Così, dopo quella breve esperienza, tornai punto e a capo. Trascorsi mesi confusi in cui vagavo tra frustrazione, insoddisfazione e ossessione perché mi sentivo in ritardo rispetto alla tabella di marcia; mi avvicinavo all’età adulta e mi sembrava di non aver fatto neanche un passo avanti. E, quando mi guardavo intorno, tutti sembravano così sicuri della propria strada, mentre io ero ancora lì, con la stessa domanda che mi ronzava in testa a tredici anni. 

Non avevo un lavoro, inviavo una marea di mail con il mio curriculum a tutte le aziende che mi capitavano a tiro: qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Magari avrei iniziato un altro lavoro per poi scoprire che neanche quello mi avrebbe resa felice? 

Nel frattempo leggevo, con il desiderio di perdermi in quei mondi che non mi facessero pensare al mio, troppo difficile e in salita. Decisi di parlarne con mio fratello maggiore una sera, che senza troppe esitazioni mi disse: 

<<Perché non scrivi?>>

Di fronte alla sua domanda la mia mente andò indietro di diversi anni e mi ricordai di quando, a nove anni, avevo scritto su qualche pagina strappata da un quaderno a righe una fan fiction di Harry Potter; molto molto confusa eh, però ci avevo messo tantissimo impegno.

Così iniziai a buttare giù qualcosa su Medium, un sito di condivisione che uso tutt’oggi: principalmente i contenuti erano i miei pensieri frustrati e le mie insicurezze, ma mi resi subito conto che mi aiutava a stare un po’ meglio. 

Da quel momento la scrittura divenne il mio modo di sfogarmi e di liberarmi di tutti quei pensieri che altrimenti sarebbero rimasti a frullare dentro la mia testa, senza darmi mai pace.

Iniziai a informarmi sul web, alla ricerca di qualche progetto di scrittura su commissione; non avevo un briciolo di esperienza, ma sapevo essere insistente; così, dopo vari tentativi, qualcuno mi rispose. 

Mi ritrovai a scrivere articoli sui temi più disparati: recensioni di prodotti amazon, articoli su  diete e alimentazione e contenuti per siti web, fino a ricevere un giorno la proposta per la stesura di un vero e proprio manuale. 

Era finalmente arrivato il momento del grande romanzo avvincente?

Beh, non proprio. Era un manuale sull’uncinetto, e a dir la verità non ne avevo neanche mai visto uno. 

Così feci le mie ricerche, studiando quella pratica antica e tutte le tecniche di cucito a essa legate. Di lì a breve avrei iniziato un altro lavoro che ben poco aveva a che fare con la scrittura, quindi il tempo a disposizione era davvero poco: scrissi il manuale in due settimane, buttai giù un sommario e alla fine scoppiai in lacrime. 

Avevo scritto il mio primo libro. Poco importava il tema: era ben lontano dal romanzo dei miei sogni ma era un libro vero e proprio, con un inizio e una fine. 

In quel momento, dopo anni di pensieri confusi, iniziai a capire qualcosa. 

Chissà, forse nelle lingue ero molto più brava, ma scrivere mi piaceva davvero. Mi emozionava, mi accendeva, mi faceva piangere dalla felicità. 

Ed era proprio ciò che stavo cercando. 

E oggi ti dico, non importa quanto tempo ho impiegato. Negli anni avevo escluso tante strade finché la scrittura mi ha trovata, diventando la mia compagna di viaggio.

Lei non risponde alla domanda “cosa voglio fare da grande”, perché cercare a tutti costi quella risposta a un certo punto smise di essere la mia priorità. Avevo trovato la mia fonte di sfogo, di emozioni e di sorrisi, e questa era l’unica cosa che per me contava davvero. 

L’uncinetto fu solo l’inizio del mio percorso, perché dopo ricevetti una risposta anche alla mia immagine mentale di grattacieli, telefono e valigetta. 

Ma questa è un’altra storia.