tamponi.sara@gmail.com, Autore presso Sara Tamponi
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Racconti

Forse è solo colpa di gennaio

A ventisette anni ero convinta che avrei spaccato il mondo.

Avevo da poco lasciato casa dei miei, con due spicci guadagnati in un call center. Scrivevo anche libri per due spicci, per conto di altri, come ghostwriter.

“Quando diventerò ricca” ripetevo spesso. E lo dicevo anche con una certa convinzione.

Oggi sono rientrata a casa dopo aver visto il mare, e ho pensato all’ultima volta che ho scritto. Un brevissimo pezzo che risale a due, tre mesi fa.

Ormai non scrivo quasi più. Ho compiuto trent’anni e quella meravigliosa bolla è esplosa. Pouf. Li ho compiuti mentre facevo un lavoro merdoso, con cui mi sono pagata un corso.

Ho lasciato quel lavoro, ho finito il corso. “L’editoria è un casino, qui in Sardegna non si trova nulla. Non ti si filano” mi vedo mentre lo dico, con l’aria di chi l’ha accettato e ha deciso di rinunciarvi, senza troppi rimpianti. Ci ho sbattuto la testa troppe volte. “La scrittura pubblicitaria va di più, serve la SEO!” dico con una nuova luce negli occhi. Determinazione fortissima direi. “Stavolta ce la faccio”. L’ho detto quattro mesi fa.

È quel che è rimasto di un sogno che mi porto dietro da troppo tempo. Lo tengo in mano con poca convinzione, lo trascino come una bambina che ha giocato troppo con la sua bambola preferita.

La bambina va dalla mamma: “mamma, la mia bambola non parla. Perché non parla?” Beh, una bambola non può parlare, lo sappiamo no? Ma anch’io me lo son chiesta tante volte, come la bambina. “Perché non funziona? Perché mi sbatto e mi faccio il culo e mi taglio in quattro e il sogno non prende il volo?

Credo che un sogno possa spegnersi. Lo strapazzi e lo strofini e lo svisceri talmente tanto che, alla fine, perde il fascino. L’ho fatto talmente tanto che qualche giorno fa ho detto al mio ragazzo “l’alimentazione! Mi piace! Avrei dovuto studiare biologia”. Ebbè.

Si è consumato come un legnetto al fuoco. Ecco sì, penso sia successo questo.

O forse è solo colpa di gennaio. Mi fa venire pensieri tristi. Odio gennaio.

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Senza titolo

Sei spaventoso.

Non hai occhi per guardarmi né bocca per parlare.

Eppure, sento che mi fissi. Quel bianco vuoto che vorrei sporcare, ma non ho il coraggio. Non l’ho più, perché non mi sento all’altezza. O forse perché non ci siamo guardati per troppo tempo. Non volevo affrontarti.

Ora ci provo, penso a cosa voglio dire. Ma nella mia testa c’è solo un motivetto di una nuova canzone che ho provato a cantare appena sveglia, con i capelli incasinati e gli occhi ancora pestati. Penso ai video di meal prep che guardo all’ora di pranzo. A comprare un frullatore. A cosa farò oggi, domani e il giorno dopo.

Poi ci sono la circolarità, le leve di persuasione, le landing page e i corsivi usati male. Sono i miei studi, le cose che sto imparando in questi mesi. C’è la rabbia per quest’anno schifoso. Cerco di spegnerla. È difficile.

Penso che si possa creare una storia dalle cose più banali. Tanti lo fanno. Ci vuole coraggio per farlo però. L’ho già detto all’inizio. Ma potrei nascondermi dietro la circolarità. Sì, ho ripetuto coraggio con uno scopo, perché così rimane impresso. Metto un’informazione in alto, poi la riporto in basso, è tutto studiato.

Ma non è vero.

Vediamo cosa esce fuori? Proviamo.

Mi sveglio con una fitta alla tempia, il mio corpo è un rottame. Ieri ho esagerato in palestra. Mi alzo dal letto e vado a fare colazione. Tolgo due pancake dal freezer e li butto in microonde. Fisso il piccolo schermo e i secondi che passano, poi prendo i pancake e li metto su un piatto, versandoci sopra un po’ di marmellata. Senza zuccheri, ci mancherebbe. Appena finisco apro la finestra. L’aria è più fredda del solito. Adesso è novembre davvero. Trascorro l’ora successiva sul divano. Leggo le notizie, scrollo i post sui social. Riascolto una canzone uscita la notte prima. Provo a cantarla, memorizzo il testo, poi chiudo Spotify e accendo il pc. Ho una bozza di un’esercitazione da consegnare. La sistemo e la mando alla docente.

Poi penso a lui. Quello che è sempre stato il mio migliore amico ma che ho deciso di ignorare per mesi. Volevo continuare a farlo, ma sono un po’ tentata. Fisso l’icona per qualche secondo, poi ci clicco sopra.

Eccolo. Il foglio bianco spaventoso, senza occhi né bocca. Sento che mi giudica. O forse non ci siamo guardati per troppo tempo.

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Rapisce come il canto

Parla e fingo di ascoltarla.

Annuisco quando chiede un feedback.

“Certo, chiaro. Ho capito”

Tengo l’altra mano nascosta sotto il tavolo, guardo in basso e aggiorno la pagina sullo smartphone. Compulsivamente. Senza tregua. Ogni trenta secondi.

Ti prego. Ti prego. Ti prego.

Non mi rivolgo a qualcuno di preciso. Non sono credente, non lo sono mai stata. Aspetto un segnale, quello che inseguo da anni. Mi sembra di sentirlo gridare. “Sei libera! Libera!”

Il mio cuore scalpita al solo pensiero, sento l’adrenalina che scorre in attesa del momento in cui potrò dirlo: addio e a mai più.

SE potrò dirlo. SE potrò farlo.

Così costringo tutta me stessa a tenere i piedi per terra. Potrebbe essere un altro no. È normale. Succede nella vita, sempre. Non è sbagliato, è il corso delle cose. Ma io quel corso vorrei prenderlo, ribaltarlo, sbatterlo come un vecchio tappeto e poi buttarlo nel secco. Tenetevi quel fottuto tappeto. Non lo voglio.

Ho cercato di ignorare quella parte di me. Quella che mi accende, che mi fa sentire viva. Ho provato a schiacciarla, ma appena trova uno spiraglio pouf, ecco che ritorna. Prepotente, testarda. Si impossessa di me, e io non riesco a non cederle. Si insinua sotto la pelle, mi fa sognare. Mi ricorda quando da ragazzina, dodicenne e in pubertà, ascoltavo musica romantica mentre guardavo fuori dal finestrino, immaginando un mondo in cui ballavo anche se non l’avrei mai fatto, perché rigida come un tronco e timida all’inverosimile. Ballare mi faceva sentire stupida. Lo provo tutt’ora.

Quello dei trent’anni invece, sembra più un canto, una di quelle voci tanto belle da sollevarti la pelle.

Non riesco a resistergli.

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Script test

  1. L’utente visualizza la propria dashboard;
  2. Tra le icone a disposizione sulla dashboard, l’utente può scegliere tra “vita” o “lavoro”, caratterizzate rispettivamente dai colori blu e grigio;
  3. L’utente clicca su “vita”, ma il pulsante non si accende;
  4. L’utente clicca sul pulsante “lavoro”;
  5. L’utente accede all’area “lavoro”, dalla quale può visualizzare i relativi dettagli;
  6. L’area “lavoro”, in basso a destra, mostra una dicitura cliccabile denominata “visualizza opzioni avanzate”
  7. L’utente accede alle opzioni avanzate;
  8. Una volta effettuato l’accesso all’area sopracitata, l’utente si schianta su una pagina con sfondo bianco, apparentemente errata, caratterizzata dalla seguente dicitura:

“Error 404: ti ho preso in giro. Il pulsante “vita” non esiste. Lavora, str***o”

L’utente torna alla pagina precedente. L’utente clicca sul badge posizionato in alto a destra sulla pagina, caratterizzato dalle sue iniziali. L’utente clicca sul badge. L’utente effettua il logout.

L’elenco puntato iniziava a darmi sui nervi. Scelta stilistica, direbbe l’artista. Io preferisco chiamarla pigrizia.

Ah, dimenticavo.

Risultato atteso: l’utente accede alle icone “vita” e “lavoro” presenti sulla propria dashboard.

Bug: (o forse no?): il pulsante “vita” non si accende.

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Puzzle

Un pezzo del puzzle va via.

Sapevo fin dall’inizio che non ne facesse parte, eppure in qualche modo si incastrava. Aveva smussato i suoi angoli, aveva adattato la sua forma con tanto sforzo. Sapeva che avrebbe rischiato di piegarsi, ma era pronto a farlo, perché conscio che non sarebbe rimasto lì per sempre.

Ogni giorno il pezzo aveva una nuova crepa, ma resisteva. Nel frattempo, cercava disperatamente l’altro puzzle, quello vero. Il suo.

Sono stata a fianco a quel pezzo fin dal primo giorno. Ci lamentavamo, le nostre parole consumavano il cartone lentamente, perché trovavamo inaccettabile stare in quel posto così scomodo. Così sbagliato. Tra noi, però, c’è sempre stato un terzo pezzo: quello saggio, forte, ottimista. Ci diceva di resistere, che capiva. Lei capiva.

Ora, il primo pezzo ha trovato il suo posto, tra decine di puzzle sparsi qua e là. Lo guardo e sorrido. Tra poco dovrò salutarlo.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Sono felice per lui e sono triste per me.

Due volte in due mesi.

Il mio cartone è bagnato, ma so che si asciugherà, come sempre, pronto a riadattarsi ma non a piegarsi.

Piegarsi no, mai.

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Puntura indolore (o quasi)

Mi sfioro il collo e lo sento. È ancora lì. Un piccolo puntino in rilievo sulla pelle.

Due settimane fa mi ha punto una vespa e non ho sentito nulla. O almeno, quasi. Il mio cervello era spento a uno punto tale da cancellare il dolore. C’era solo l’acqua di una piscina, un trampolino, belle persone. E poi verde, tanto verde, insieme a un profumo di pino che mi pizzicava le narici.

È stato bello, quel giorno. I problemi non esistevano. Non sentivo la mia testa rimbalzare impazzita come una pallina da ping pong. Non sentivo il mio stomaco lamentarsi. Sembrava una magia, qualcosa di surreale.

Dalle undici del mattino alle undici di notte non c’è stato dolore, frustrazione, paura. Confusione.

Alle 23.30, poi, è tornato.

Ahi, ho pensato, sfiorandomi il collo.

Era finito, ma io avrei voluto che quel sogno durasse per sempre.

Sette e ventitré, mi ha ricordato una vocina simpatica nella mia mente che avrei tanto voluto prendere a pugni.

Ho chiuso gli occhi.

Un giorno finirà.

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Sebastiano

“Friggitrice ad aria” cita una copertina verde fluo.

Mah.

La libreria è disordinata, con volumi su volumi impilati sul pavimento. C’è persino un cagnetto che sonnecchia di fronte a uno scaffale sul suo piccolo cuscino. Mi viene difficile passare, ho paura di pestargli una zampa, così mi avvicino ai titoli per leggerli meglio, in punta di piedi. E di fianco al libro sulla friggitrice sta uno sui fiori. Poi uno sulla meditazione. Un altro sul mangiare sano. Li studio uno a uno, con attenzione, alla ricerca di una logica che non c’è. Sono venuta qui per cancellare le ombre, per fare chiarezza nella mia mente, ma la libreria è più confusa di me. Il cagnetto inizia ad abbaiare.

<<Sebastiano!>> lo rimprovera la commessa, poi lo prende in braccio ed esce fuori, lasciando il negozio incustodito. Continuo a girare tra gli scaffali, guardando i titoli dei volumi e delle sezioni: psicologia, fantasy, letteratura classica. Apro alcuni libri, li sfoglio, leggo qualche riga. Niente da fare. Mi arrendo.

Lascio la libreria, entro in profumeria e prendo un rossetto color mattone, poi mi passo la mano tra i capelli. Sembrano paglia. Scelgo un balsamo a caso e vado alla cassa.

Esco dal negozio e mi siedo su una panchina. Recupero il rossetto e lo smartphone dalla borsa, apro la fotocamera e passo la tinta rossa sulle labbra, poi mi guardo.

Meglio.

Rimango qualche minuto seduta di fronte alla libreria, noto la commessa chiudere la porta a chiave.

Certo che Sebastiano, per un cane, è proprio un nome stupido.

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Specchio

<<Ciò che vorrei non posso averlo, ciò che ho non lo voglio, non mi interessa. Capisci?>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Il suo viso è tirato, lo sguardo confuso, le labbra atteggiate in una perenne smorfia triste.

<<A quest’ora, in questo periodo dell’anno, la mia pelle è di un altro colore, invece guardami. Guardami! Quel maledetto verdastro che è parte di me, quest’anno dovrò tenerlo. E sai perché?>>

Non risponde, di nuovo.

<<Te lo dico io, perché. Perché il mare non lo vedo più. Perché la mia vita non è più vita, è solo un susseguirsi di sveglia sette e ventitré sette e ventitré sette e ventitré per cinque giorni alla settimana finché poi arriva il sabato e posso pensare. Posso guardarmi, e quello che vedo è ciò che non avrei mai voluto. Ah, i trent’anni!>>

Batto il palmo aperto sul marmo del lavandino e subito dopo me lo porto alla bocca, come se quel gesto potesse alleviare il dolore. I miei occhi si fanno lucidi ma poi faccio un respiro profondo.

<<Non posso piangere, no. Non posso perché fa male. Se piango una volta sto male una settimana, sai? Forse anche due. Ah, ma lo sai già. Chi meglio di te!>>

Rido, e ride anche l’altra, ma dura poco.

<<Non so più niente. Non ho più me. Mi rimane questo, questi pensieri disordinati e senza senso, ma fanno schifo, sai? Non piacciono a nessuno>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Distolgo lo sguardo dallo specchio ed esco dal bagno.

Pain sarà il mio prossimo tatuaggio.

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Non

Non lascerò più

che il mondo dei sogni mi sussurri bugie all’orecchio.

Non lascerò più

che le persone possano approfittarsi della gentilezza.

Non lascerò più

Che le emozioni possano offuscare il mio giudizio.

Non ascolterò più

le lacrime che minacciano di uscire al sentir una canzone.

Non ascolterò più

Il cuore che batte forte quando qualcosa va storto.

Non ascolterò più

i suggerimenti di chi in realtà non vuole far del bene.

Non guarderò più

l’estate che va via in silenzio senza prima salutarmi.

Non guarderò più

il futuro con occhi accecati dal sogno.

Non guarderò più

in una sola direzione.

Questa è una lettera per me stessa,

e la invito a leggerla, ogni volta che sentirà il coraggio mancarle.

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In fondo alla vaccheria, tra le strade senza cemento

C’era il profumo dei fiori, i colori della frutta, le radici scoperte dalla terra.

C’era una casa vicino al mare in cui vivevano due vecchietti che non si fermavano mai.

Quando la ragazza andava a trovarli, la nonna era sempre ai fornelli mentre il nonno zappava la terra. Non volevano e non potevano fermarsi.

<<Non portatemi mai via di qui>> diceva lui <<ne morirei>>.

Le parlavano di un mondo in cui i palazzi non esistevano e le persone la sera chiacchieravano, seduti fuori dalle porte delle loro case.

C’era un posto vicino alla casa del nonno che chiamavano vaccheria. Lì andava sempre a prendere il latte in un contenitore di metallo, e quando lo cuoceva faceva una schiuma alta. Era latte grasso e pieno di panna.

Il nonno amava tanto la nonna. Diceva di essere la sua ancora, e lei aveva sempre un fare un po’ scorbutico. Quando lui però la guardava il suo viso si addolciva. Leggeva nei suoi occhi amore, venerazione e anche un po’ di ironia.

I nonni scherzavano e si punzecchiavano sempre, e quando i nipoti andavano a trovarli li vedevano sparire in mezzo all’orto all’improvviso, alla ricerca delle zucchine più grosse e delle pesche più mature.

Gioivano delle piccole cose. Bastava il sorriso della figlia ad accendergli l’animo e la memoria, sepolta da anni vissuti intensamente, di amore e senza tregua.

Quando poi la ragazza tornava a casa sentiva sempre un po’ di malinconia, perché il suo non era un mondo in cui ci si poteva accontentare di poco. Era fatto di speranze affievolite, di competizione e fame di successo. Così si aggrappava al ricordo della vaccheria, delle strade senza cemento e del vociare la sera, fuori dalle case. Pensava all’amore dei nonni, al loro gioire per le chiacchiere e alla compagnia che gli riaccendeva l’animo, e le tornava il sorriso.

Il loro era un mondo felice.