vita – Sara Tamponi
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Script test

  1. L’utente visualizza la propria dashboard;
  2. Tra le icone a disposizione sulla dashboard, l’utente può scegliere tra “vita” o “lavoro”, caratterizzate rispettivamente dai colori blu e grigio;
  3. L’utente clicca su “vita”, ma il pulsante non si accende;
  4. L’utente clicca sul pulsante “lavoro”;
  5. L’utente accede all’area “lavoro”, dalla quale può visualizzare i relativi dettagli;
  6. L’area “lavoro”, in basso a destra, mostra una dicitura cliccabile denominata “visualizza opzioni avanzate”
  7. L’utente accede alle opzioni avanzate;
  8. Una volta effettuato l’accesso all’area sopracitata, l’utente si schianta su una pagina con sfondo bianco, apparentemente errata, caratterizzata dalla seguente dicitura:

“Error 404: ti ho preso in giro. Il pulsante “vita” non esiste. Lavora, str***o”

L’utente torna alla pagina precedente. L’utente clicca sul badge posizionato in alto a destra sulla pagina, caratterizzato dalle sue iniziali. L’utente clicca sul badge. L’utente effettua il logout.

L’elenco puntato iniziava a darmi sui nervi. Scelta stilistica, direbbe l’artista. Io preferisco chiamarla pigrizia.

Ah, dimenticavo.

Risultato atteso: l’utente accede alle icone “vita” e “lavoro” presenti sulla propria dashboard.

Bug: (o forse no?): il pulsante “vita” non si accende.

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Specchio

<<Ciò che vorrei non posso averlo, ciò che ho non lo voglio, non mi interessa. Capisci?>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Il suo viso è tirato, lo sguardo confuso, le labbra atteggiate in una perenne smorfia triste.

<<A quest’ora, in questo periodo dell’anno, la mia pelle è di un altro colore, invece guardami. Guardami! Quel maledetto verdastro che è parte di me, quest’anno dovrò tenerlo. E sai perché?>>

Non risponde, di nuovo.

<<Te lo dico io, perché. Perché il mare non lo vedo più. Perché la mia vita non è più vita, è solo un susseguirsi di sveglia sette e ventitré sette e ventitré sette e ventitré per cinque giorni alla settimana finché poi arriva il sabato e posso pensare. Posso guardarmi, e quello che vedo è ciò che non avrei mai voluto. Ah, i trent’anni!>>

Batto il palmo aperto sul marmo del lavandino e subito dopo me lo porto alla bocca, come se quel gesto potesse alleviare il dolore. I miei occhi si fanno lucidi ma poi faccio un respiro profondo.

<<Non posso piangere, no. Non posso perché fa male. Se piango una volta sto male una settimana, sai? Forse anche due. Ah, ma lo sai già. Chi meglio di te!>>

Rido, e ride anche l’altra, ma dura poco.

<<Non so più niente. Non ho più me. Mi rimane questo, questi pensieri disordinati e senza senso, ma fanno schifo, sai? Non piacciono a nessuno>>

Non risponde. Mi guarda come io guardo lei. Distolgo lo sguardo dallo specchio ed esco dal bagno.

Pain sarà il mio prossimo tatuaggio.

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Dove sei finita?

Qui il mio ragazzo cercava di curare il mio mal di testa con il mare e con le pietre <3

Quando iniziai la gestione dei clienti in agenzia ero talmente entusiasta per essere arrivata “lì dentro” da dimenticare tutto il resto.

Neanche un mese dopo smisi di scrivere, accantonando le emozioni che tanto avevo rincorso.

Il ghostwriting può aspettare, mi dicevo.

La mia agenda iniziò a riempirsi di impegni che annullarono del tutto lo spazio per me stessa, ma non ne fui subito turbata; pensavo fosse giusto così, e che un giorno avrei ripreso da dove avevo interrotto.

Quel giorno però diventarono due settimane, poi un mese, poi sei. Dimenticai la scrittura, e quando mi veniva in mente scacciavo il pensiero, fingendo non fosse nulla di importante.

“Beh, S, a un certo punto anche per me è stato lo stesso. Ho smesso di scrivere perché non mi bastava. Volevo qualcosa di più. E credo che in fondo sia questa la tua strada”.

Credetti di non dare peso a quelle parole, eppure mi entrarono dentro più di quanto pensassi. Più mi allontanavo dalla scrittura, più pensavo che in fondo avesse senso.

Successe per mesi finché scoppiai.

La mia frustrazione e i miei sogni accantonati sfondarono la porta e mi fecero a pezzi. Ma, in fin dei conti, ero io l’unica responsabile; loro si erano solo limitati a ricordarmelo.

Così una sera scrissi queste parole.

Quando le rileggo, mi sembra di rivivere di nuovo quel periodo.

Non so dire quando successe.

L’unica cosa che sentivo era un forte malessere che cresceva dentro di me giorno dopo giorno, sempre più intenso e fastidioso.

Avevo dedicato talmente tanto tempo a ciò che andava fatto che a un certo punto smarrii la mia strada. L’unico vero obbiettivo era fare fare fare completare tutti i task per arrivare a fine giornata senza un pensiero per il giorno dopo.

E poi quel senso di frustrazione, di incompletezza per non essere riuscita a fare tutto. Cercavo di vivere al massimo la vita professionale, ma la mia di vita? I miei bisogni, i desideri, ciò che avrebbe dovuto avere la priorità sul resto? Stavo vivendo professionalmente la mia vita personale?

Probabilmente no.

Gli attimi di felicità non mancavano ma erano troppo brevi, un momento di euforia al quale seguiva subito una preoccupazione. E l’entusiasmo si spegneva veloce così come era arrivato, senza lasciare alcuna traccia se non una flebile sensazione, persa chissà dove, in fondo in fondo in un angolino.

Allora via una sigaretta dopo l’altra, la gola brucia ma è l’unica cosa che vuoi sentire e ti viene il mal di testa solo a pensare al prossimo compito che dovrai portare a termine. E i tuoi sogni? Dove sono? Dov’è la tua voglia di emozionarti, di crescere, di migliorarti?

E il sole? Riesci a sentire il suo calore sulla pelle? L’estate è là fuori. Aspetti sempre questo momento per bruciare al sole, ma poi fa troppo caldo e l’acqua di mare è un sollievo. I neuroni si riattivano, la pressione risale e riprendi a pensare.

Ci pensi?

Un senso del dovere che prima si affaccia alla porta e poi piano piano si fa avanti, come quando giocavi a “un due tre, stai là!” mentre contavi con gli occhi chiusi e il braccio che ti copriva il viso, appoggiato sul tronco di un albero. Un momento prima il tuo amico era a cinque metri di distanza poi, in una manciata di secondi, stava bussando alla tua spalla.

Toc, toc! Sono arrivato, ho vinto!

Il senso del dovere aveva vinto quella gara, schiacciando il suo avversario che era solo il mio bisogno di staccare la spina. Mi aveva raggiunta e inglobata, e io avevo smesso di respirare.

Respira, respira, respira.

Ti sei dimenticato di vivere, vero?

Alla fine abbandonai tutto: clienti, interviste, autori. Non ne volevo più sapere, e il solo pensiero di veder di nuovo la mia agenda così piena non mi faceva dormire la notte.

Perché quella era un’agenda riempita dai sogni di qualcun altro, e io quell’estate mi ero ripromessa che non avrei mai più messo da parte me stessa.