strade – Sara Tamponi
Categorie
Uncategorized

Cosa vuoi fare da grande?

<<Cosa vuoi fare da grande?>> 

Eccola, la magica domanda dei parenti al pranzo della domenica. 

Ero al terzo anno delle medie e nei banchi di scuola iniziavano a comparire tutti quei volantini sull’orientamento che ti avrebbero indicato la tua strada e fatto scoprire la tua passione. Avevo tredici anni e l’unica cosa a cui pensavo era quel ragazzino che in tre anni non mi aveva mai degnata di uno sguardo perché ero troppo magra, bruttina e con gli occhiali. E chi pensava al proprio futuro?!

Da quel momento iniziai a pormi la fatidica domanda perché non potevo più sfuggirle: te lo chiedevano i professori, così come i genitori e i nonni al pranzo della domenica. Ma io non ne avevo davvero idea. Aspettavo con ansia l’arrivo dell’estate per salire sulla canoa e andare al largo sugli scogli, da cui staccavo le patelle per sentire il sapore del mare sulla lingua. 

Decisi allora di scavare tra le mie scarse conoscenze e mi concentrai sull’unica cosa con cui pensavo di cavarmela: le lingue straniere. Già dai primi anni delle elementari avevo mostrato una certa propensione per lo spagnolo, ero brava con la pronuncia e memorizzavo tutto facilmente. 

Poi, durante le scuole medie, la mia insegnante di inglese mi disse che quella delle lingue era la mia strada. Certo, era una fumatrice incallita con la pelle stramacchiata. Le fotocopie che distribuiva in classe puzzavano di sigaretta e la sua voce roca mi faceva un po’ paura, ma la ascoltai ugualmente. I miei genitori si trovarono d’accordo con lei e mi iscrissi al liceo linguistico. 

Gli anni successivi ebbi la dimostrazione da me stessa che, nonostante di studiare non mi fregasse una cippa, le lingue straniere non mi richiedevano granché impegno; così mi convinsi che quello sarebbe stato il mio percorso. 

Con il passare degli anni diventai sempre più brava, la mia dimestichezza con l’inglese e lo spagnolo aumentarono e puoi immaginare quale indirizzo scelsi all’università: lingue e comunicazione. Scontato. Del resto, ero brava, no? 

Beh, in realtà, quando a diciannove anni iniziai il nuovo percorso di studi, mi si aprì un mondo. L’indirizzo aveva pregi e difetti: da una parte era disorganizzato, poco coerente e privo di una direzione ben precisa. Dall’altra, la varietà dei corsi accese il mio interesse su strade che non avevo mai considerato: giornalismo, comunicazione pubblicitaria, traduzione, scrittura.

Le scelte erano troppe, io ero una perenne indecisa e non sapevo dove sbattere la testa: troppi stimoli ma poche certezze. 

In quegli stessi anni, quella fastidiosa domanda si ripresentò in veste adulta, e nuovamente mi chiese: cosa vuoi fare da grande? 

Non lo sapevo. Mi piacevano tutti i corsi che frequentavo ma non bastava. Ogni tanto, però, nella mia mente si affacciava un’immagine: camminavo in mezzo ai grattacieli, con una tenuta da ufficio e una valigetta alla mano, mentre con l’altra reggevo il telefono che era perennemente attaccato al mio orecchio. 

Tutto sempre, troppo vago. Che diamine significa?, mi chiedevo. 

Mi trascinai quell’immagine per diversi anni, ma non seppi mai darle un nome: un contesto amministrativo forse? Sì, ma in cosa? E i miei punti di domanda aumentavano. 

Beh, posso dirti che quell’immagine mi accompagnò per diversi anni finché si sostituì a un’altra. China sulla scrivania sotto la luce di una lampadina, mi vedevo intenta a correggere pile e pile di fogli con una penna rossa, leggendoli avidamente alla ricerca della forma perfetta che avrebbe reso un libro vero quel manoscritto disordinato. 

E stavolta invece, di che si trattava? mi chiesi, ancora. 

Te lo spiegherò più avanti.

Mi laureai e, con il passare dei mesi, misi da parte quelle immagini perché troppo presa dalla ricerca di un lavoro. 

Impiegai un po’ di tempo a trovarlo, finché approdai in una libreria. I libri mi sono sempre piaciuti, e girare tra gli scaffali ad annusarli mi piaceva ancora di più: ma sentivo di non essere felice come avrei voluto. Mi mancava qualcosa, ma quel qualcosa era un cartoncino di un gioco a premi con un enorme punto interrogativo: come avrei fatto a capire? Sarei dovuta andare per esclusione in eterno, fino a trovare la risposta alle mie domande? 

Così, dopo quella breve esperienza, tornai punto e a capo. Trascorsi mesi confusi in cui vagavo tra frustrazione, insoddisfazione e ossessione perché mi sentivo in ritardo rispetto alla tabella di marcia; mi avvicinavo all’età adulta e mi sembrava di non aver fatto neanche un passo avanti. E, quando mi guardavo intorno, tutti sembravano così sicuri della propria strada, mentre io ero ancora lì, con la stessa domanda che mi ronzava in testa a tredici anni. 

Non avevo un lavoro, inviavo una marea di mail con il mio curriculum a tutte le aziende che mi capitavano a tiro: qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Magari avrei iniziato un altro lavoro per poi scoprire che neanche quello mi avrebbe resa felice? 

Nel frattempo leggevo, con il desiderio di perdermi in quei mondi che non mi facessero pensare al mio, troppo difficile e in salita. Decisi di parlarne con mio fratello maggiore una sera, che senza troppe esitazioni mi disse: 

<<Perché non scrivi?>>

Di fronte alla sua domanda la mia mente andò indietro di diversi anni e mi ricordai di quando, a nove anni, avevo scritto su qualche pagina strappata da un quaderno a righe una fan fiction di Harry Potter; molto molto confusa eh, però ci avevo messo tantissimo impegno.

Così iniziai a buttare giù qualcosa su Medium, un sito di condivisione che uso tutt’oggi: principalmente i contenuti erano i miei pensieri frustrati e le mie insicurezze, ma mi resi subito conto che mi aiutava a stare un po’ meglio. 

Da quel momento la scrittura divenne il mio modo di sfogarmi e di liberarmi di tutti quei pensieri che altrimenti sarebbero rimasti a frullare dentro la mia testa, senza darmi mai pace.

Iniziai a informarmi sul web, alla ricerca di qualche progetto di scrittura su commissione; non avevo un briciolo di esperienza, ma sapevo essere insistente; così, dopo vari tentativi, qualcuno mi rispose. 

Mi ritrovai a scrivere articoli sui temi più disparati: recensioni di prodotti amazon, articoli su  diete e alimentazione e contenuti per siti web, fino a ricevere un giorno la proposta per la stesura di un vero e proprio manuale. 

Era finalmente arrivato il momento del grande romanzo avvincente?

Beh, non proprio. Era un manuale sull’uncinetto, e a dir la verità non ne avevo neanche mai visto uno. 

Così feci le mie ricerche, studiando quella pratica antica e tutte le tecniche di cucito a essa legate. Di lì a breve avrei iniziato un altro lavoro che ben poco aveva a che fare con la scrittura, quindi il tempo a disposizione era davvero poco: scrissi il manuale in due settimane, buttai giù un sommario e alla fine scoppiai in lacrime. 

Avevo scritto il mio primo libro. Poco importava il tema: era ben lontano dal romanzo dei miei sogni ma era un libro vero e proprio, con un inizio e una fine. 

In quel momento, dopo anni di pensieri confusi, iniziai a capire qualcosa. 

Chissà, forse nelle lingue ero molto più brava, ma scrivere mi piaceva davvero. Mi emozionava, mi accendeva, mi faceva piangere dalla felicità. 

Ed era proprio ciò che stavo cercando. 

E oggi ti dico, non importa quanto tempo ho impiegato. Negli anni avevo escluso tante strade finché la scrittura mi ha trovata, diventando la mia compagna di viaggio.

Lei non risponde alla domanda “cosa voglio fare da grande”, perché cercare a tutti costi quella risposta a un certo punto smise di essere la mia priorità. Avevo trovato la mia fonte di sfogo, di emozioni e di sorrisi, e questa era l’unica cosa che per me contava davvero. 

L’uncinetto fu solo l’inizio del mio percorso, perché dopo ricevetti una risposta anche alla mia immagine mentale di grattacieli, telefono e valigetta. 

Ma questa è un’altra storia.