Racconti Archivi - Sara Tamponi
Categorie
Racconti

25.03-28.03

25.03.25

I giorni passano e tutto si ripete allo stesso modo. Pianti, brutti pensieri, cuore accelerato. Ansia ansia ansia sempre più forte. Mi si spezza il respiro e sento la schiena scaldarsi. Quando sono in compagnia fingo che non stia succedendo nulla. Da fuori deve sembrare che sia tutto okay. Sono brava a fingere. Sembra che stia bene ma dentro muoio.

Oggi mi chiedo quanto tempo sia passato. Da quanto siedo su questo divano, da quanto ripeto le stesse azioni in loop. Inizio a chiedermi quale sia il senso di tutto. Perché mi sia sempre focalizzata su un lavoro, su IL lavoro, quello che finalmente mi avrebbe dato qualcosa. Mi avrebbe fatto sentire qualcosa, qualcuno. Per stare bene con me stessa, per arrivare a quella che credevo una felicità definitiva.

Ma in fondo è vero? È il lavoro, quello giusto, che può cambiare le cose? O dipende da come io le guardo?

Lascerò che i giorni scorrano e che mi insegnino ancora qualcosa. Lascerò che mi facciano trovare altre parole e che mi insegnino a crescere, a distaccarmi da una certezza che in realtà era ed è sempre stata solo una mia convinzione.

Lascerò che le stagioni scorrano, mentre io attendo che cambi qualcosa. Cambierà l’orario, spunterà il sole, e forse avrò in mano qualcosa di nuovo. Andrò al mare, e aspetterò che lui mi sussurri l’ispirazione. Che mi dica le parole giuste che io dovrò riportare sul foglio. Sarà il mio compito. Sarò la sua interprete.

Quando farà caldo metterò la protezione solare perché temo fottutamente le rughe. E scambierò qualche parola di circostanza con un’amica, perché forse oggi preferisco tenere per me ciò che provo. Continuerò a bere un solo caffè al giorno, due quando mi sento ribelle, e li gusterò come la cosa più prelibata perché amo il caffè e ne berrei un litro, ci butterei la faccia dentro se non scottasse. O se avessi uno stomaco che funziona.

Guarderò le nuvole vedendo del cibo nelle loro forme perché ho un evidente problema con tutto ciò che si può ingurgitare. E scoccerò i gatti che trovo per strada, e continuerò a scrivere ‘sta boiata quando ne avrò voglia.

28.03.2025

Avevo perso la capacità di esprimermi. No, non quello, parlare sapevo ancora farlo. Ma ero come un guscio vuoto. Anzi no, quello andrebbe bene per un bebè che non ha alcuna esperienza del mondo. Io ero un guscio svuotato. Un contenitore che aveva avuto dentro per anni colori, ricordi e profumi. Ora erano rimaste solo flebili tracce, come le fragranze sulle striscioline di carta della profumeria che dimentichi dentro il cappotto. No, non avevo perso la capacità di esprimermi. Solo dentro di me, forse, non c’era più niente da dire. Avevo detto tutto e ora avevo finito.

Di cosa si scrive? Di tutto, di qualunque cosa ti passa per la testa. Ma lì, nel cervello, passa ancora qualcosa? È possibile non avere più niente da pensare? Più nessun parere, più nessuna rabbia, fastidio. Lacrima. Le lacrime scaturiscono da un pensiero triste, o da un’emozione felice. Il risentimento da un’offesa, la voglia di fare da un desiderio, da una curiosità. Iniziavo qualcosa e mollavo. Ne iniziavo un’altra e mollavo. Mi guardavo allo specchio e mi spazzolavo i capelli ma mi evitavo, non incrociavo mai il mio sguardo. Le idee erano finite. Il fuoco si era spento. L’inverno era finito e in me era cambiato qualcosa, ma quella sbagliata. Avevo smesso di tenermi per mano. Avevo lasciato che cadessi nel pozzo delle incertezze e mi ci ero persa dentro.

Categorie
Racconti

Forse è solo colpa di gennaio

A ventisette anni ero convinta che avrei spaccato il mondo.

Avevo da poco lasciato casa dei miei, con due spicci guadagnati in un call center. Scrivevo anche libri per due spicci, per conto di altri, come ghostwriter.

“Quando diventerò ricca” ripetevo spesso. E lo dicevo anche con una certa convinzione.

Oggi sono rientrata a casa dopo aver visto il mare, e ho pensato all’ultima volta che ho scritto. Un brevissimo pezzo che risale a due, tre mesi fa.

Ormai non scrivo quasi più. Ho compiuto trent’anni e quella meravigliosa bolla è esplosa. Pouf. Li ho compiuti mentre facevo un lavoro merdoso, con cui mi sono pagata un corso.

Ho lasciato quel lavoro, ho finito il corso. “L’editoria è un casino, qui in Sardegna non si trova nulla. Non ti si filano” mi vedo mentre lo dico, con l’aria di chi l’ha accettato e ha deciso di rinunciarvi, senza troppi rimpianti. Ci ho sbattuto la testa troppe volte. “La scrittura pubblicitaria va di più, serve la SEO!” dico con una nuova luce negli occhi. Determinazione fortissima direi. “Stavolta ce la faccio”. L’ho detto quattro mesi fa.

È quel che è rimasto di un sogno che mi porto dietro da troppo tempo. Lo tengo in mano con poca convinzione, lo trascino come una bambina che ha giocato troppo con la sua bambola preferita.

La bambina va dalla mamma: “mamma, la mia bambola non parla. Perché non parla?” Beh, una bambola non può parlare, lo sappiamo no? Ma anch’io me lo son chiesta tante volte, come la bambina. “Perché non funziona? Perché mi sbatto e mi faccio il culo e mi taglio in quattro e il sogno non prende il volo?

Credo che un sogno possa spegnersi. Lo strapazzi e lo strofini e lo svisceri talmente tanto che, alla fine, perde il fascino. L’ho fatto talmente tanto che qualche giorno fa ho detto al mio ragazzo “l’alimentazione! Mi piace! Avrei dovuto studiare biologia”. Ebbè.

Si è consumato come un legnetto al fuoco. Ecco sì, penso sia successo questo.

O forse è solo colpa di gennaio. Mi fa venire pensieri tristi. Odio gennaio.

Categorie
Racconti

Riassunto

Niente vestiti, notti soffocanti, capelli sempre bagnati.

Pinguini nelle cuffie, persone sudate, fermate dell’autobus deserte.

Mare piatto, sabbia bollente, puzza di traffico al rientro a casa.

Pesca sul molo, mute da sub, pesci colorati e pinne velenose.

Compleanni malinconici, solitudine, nessuna voglia di ascoltare ma solo di pensare.

Crema solare, materassini, pressione bassa e pensieri confusi.

Schizzi di vernice, buste pesanti, una casa piccola in mezzo a un giardino.

Parole disordinate perché non sai bene cosa fare, se continuare a guidare o lasciar andare.

Categorie
Racconti

27.03

<<Sai, quando sono triste, penso sempre a tre cose>>

<<Ah sì? E quali sono?>> le chiese. Sembrava distratto. Si schermava gli occhi dal sole mentre il suo sguardo era perso sul mare. 

<<Una è quella volta in cui stavamo andando alla casa al mare. Stavi guidando, e nel frattempo mi mandavi i bacini>>

Sorrise ma non la guardò. 

<<Un’altra è quella volta in cui ero andata sul sup e mi avevi comprato un cornetto>>

<<Perché proprio quella?>> si fece più attento. 

<<Perché non avevo pensato a nulla, per tutta la mattina. Nessun pensiero. Ero felice>> disse, mentre cercava di seguire il suo sguardo. Si strinse le gambe tra le braccia. 

<<E la terza?>>

<<La terza è la sera di Capodanno. Eravamo in macchina, a un certo punto mi hai preso le mani e mi hai guardata, dicendo che avremmo superato tutto>> disse, sorridendo al ricordo. 

<<E cosa c’è di tanto speciale?>>

<<Il tuo sguardo>>

<<E cosa aveva il mio sguardo?>>

<<Amore>>. 

Non disse più nulla, ma se lo aspettava. Non usavano mai quella parola, eppure la pensavano entrambi. Rimasero in silenzio a guardare il mare, come se in quella distesa d’acqua salata potesse esserci una risposta ai loro problemi. O forse lo guardavano e basta, cercando di non pensare. Ogni tanto ricordavano i momenti di solo un anno prima, in quella vecchia casa lontana dalla città. Nessuno, né la famiglia né gli amici, andava mai a trovarli. Dicevano che erano troppo isolati, che avrebbero dovuto cercare un posto più vicino, ma loro erano felici. Quella casa sembrava racchiudere tutti i loro desideri. Non erano di grosse pretese: un giardino, aria aperta e la vista sul mare. In realtà vedevano solo un quadratino di azzurro da lontano, ma se lo erano fatti bastare. 

Era passato così poco, eppure erano cambiate tante cose. Ora il mare era più lontano, e lo stesso poteva dirsi dei loro sogni. I doveri, il lavoro e la sopravvivenza, non sembrava esserci spazio per altro. Così, quando tutto diventava troppo pesante, prendevano la macchina e andavano a guardare il mare. Il lieve rumore delle onde sulla riva sembrava calmare le loro menti impazzite. Resettava tutto e li portava indietro a quella casa, la prima insieme, con le mura rosse e un gatto impaurito che non erano mai riusciti ad accarezzare. E, quando non bastava immaginarla, passavano lì di fronte, nel buio della notte, osservandola da lontano. 

<<Chissà se l’avranno affittata>> gli diceva. 

<<Nah, non credo. È chiusa da fuori>> 

<<Che teste di cazzo. Andiamo>>

Gli avevano rubato un sogno, forse la speranza. Ma la vita continuava, e le onde del mare non avrebbero potuto cancellare i loro pensieri per sempre.